Di tutti i luoghi orribili creati dall’uomo, come i campi di concentramento, i posti in cui uccidono le oche per fare il foie gras, lo studio di Pomeriggio 5 e Bershka, un ufficio pieno di omofobi è certamente uno dei più inquietanti.
Urge una parentesi prima che mi denuncino: io amo Bershka, a partire dai commessi alti due metri e le magliette a un euro cucite da cinesi poveri con cui solidarizzo un sacco, ma l’idea di fare shopping in una discoteca secondo me è alienante.
Detto ciò, torniamo al posto di lavoro con gli omofobi inclusi. Devo premettere che in questo senso ho sempre avuto fortuna, trovando non solo dei colleghi che all’apparenza non ritengono la sessualità come un argomento di conversazione degno di nota, ma anche persone che, essendosi accorte di vivere nel ventunesimo secolo, hanno fatto propria la causa LGBT e non hanno dei pregiudizi nei confronti degli omosessuali. Insomma, praticamente gli alleati etero.
Situazione un pochino diversa quella che vive un mio amico e lettore di Milano, che chiameremo Giangiacometto per tutelare la sua privacy e perché è un nome che mi fa molto ridere. Giangiacometto sostiene che nella sua azienda, pur essendoci un clima abbastanza duemilasedici senza palesi discriminazioni nei suoi confronti, spesso i colleghi etero si insultano chiamandosi scherzosamente “frocio”. O cose simili.
Il caso Giangiacometto mi ha fatto pensare. Finora ho sempre pensato che il diritto a poter pronunciare liberamente la parola “frocio” fosse limitato ai gay, i quali avrebbero potuto usufruirne per reazione o per scherzo. Di solito, per non mandare i messaggi sbagliati, ho sempre evitato di pronunciarla di fronte a persone eterosessuali, sottovalutando forse (ma in alcuni casi no) la loro capacità di intuire che l’uso della parola “frocio” è una possibilità che i gay si sono guadagnati dopo tanti anni di offese.
Offese portate da tutta una serie di epiteti che sono quasi orgoglioso di ricordare:
invertito, deviato, pederasta, sodomita, depravato, arruso, bardassa, bardascia, buzzarone, buggerone, peppia, ricchione, vasetto, lumino, buco, bucaiolo, busone, iarrusu, uranista, finocchio, culo, frega’gnolo, checca, checca fracica, checca marcia, checca pazza, checca persa, checca sfatta, checca franta, buliccio, cupio, culattone
Capite bene che se due buontemponi eterosessuali scherzano dicendosi una di queste parole non è esattamente come se si dessero dello stronzo o del coglione. Queste parole si portano dietro una storia fatta di discriminazioni, lotte e battaglie – alcune vinte, ed è per questo che io sono quasi orgoglioso di queste parole. È un po’ come dire negro, o ebreo, o fan di Vasco Rossi.
Piano piano sono diventato molto più elastico con l’uso di questo termine. Intanto perché spero nel potere risolutivo dell’autoironia. Poi perché se voglio gli stessi diritti ho come l’impressione di dovermi sorbire il pacchetto completo, con le relative prese in giro e l’avere a che fare con punti di vista più superficiali. E infine perché crescendo ho capito che non ho energie per fare di tutto una questione di principio, ma devo concentrarmi sulle battaglie importanti: in fondo, è il 2016 anche per gli omosessuali, e certe noie del quotidiano bisogna saperle superare.
Quindi, ho maturato una filosofia sull’uso della parola “frocio” che si potrebbe sintetizzare in:
a volte, scappa
ma sarebbe meglio di no.
Come la diarrea protratta, insomma.
Poi, se il calciatore di turno o il politico della domenica o il concorrente del reality del lunedì se ne escono dicendo “frocio” in pubblico, io mi ci incazzo a morte e spero nella gogna mediatica e se posso lo boicotto in tutti i modi in tutti i luoghi in tutti i laghi, perché non ho allentato la presa su una questione del genere per farmi prendere per il culo dal primo demente.
Così come, caro Giangiacometto amico mio, se sentissi un collega dire “frocio” e la cosa non mi piacesse, cercherei, con pazienza e serenità e a costo di passare per un po’ pesante, di spiegargli come mai mi ha dato noia. Magari non è un coglione, e capisce.
Roba affine
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Qui in ufficio da me c’è un’atmosfera ’16. Ma 1916 direi.
L’altro giorno ho raccontato di aver decorato col decoupage una sedia (venuta tra l’altro benissimo!), la reazione del primo collega è stata: il decoupage è da donne o da finocchi.
Qui in ufficio da me viviamo in un clima sostanzialmente ’16.
1916.
L’altro giorno ho raccontato di come avessi decorato una sedia di legno con il decoupage ed ecco il commento di collega di stanza: Il decoupage è da donne o da finocchi.
E poi niente, poi questo:
https://www.youtube.com/watch?v=5zojR8k2eTU
La sedia l’ho vista sul tuo bel blog e la invidio molto (e secondo me il collega tuo ha delle sedie tristissime…).
Per Saturno Contro solo cuori!
Ciao Zucchero! Mi piace molto il tuo blog, che ho appena scoperto. Quella del linguaggio è una battaglia da combattere ogni giorno, anche con tanta ironia. Io sono favorevole all’uso di frocio/frocia ma solo quando è consapevolmente carico del significato politico che l’attivismo queer gli ha fornito. Mi rendo conto che questo sia un passo avanti rispetto al fatto di spiegare al collega from the ’80s che no, magari no.
Detto ciò: posso condividere l’articolo sul gruppo #adotta1blogger? (per saperne di più: http://social-evolution.it/adotta1blogger/). Un gruppo che ti inviterei a seguire, se ti va. Grazie!
Ciao Primavera! (che bello poterlo dire in autunno…)
Grazie del commento. Certo, condividilo pure, mi fa molto piacere! Adesso vado a spulciare di che gruppo si tratta!
A presto 🙂
L’ho condiviso e sembra sia stato molto apprezzato. Continuerò a leggerti, a presto! 🙂 P.