«Tesoro, se vuoi diventare una drag queen dovrai impararle queste cose.»
«Come sarebbe “diventare una drag queen”? Io sono una drag queen!»
«Piccola, no-no-no. Sei soltanto un ragazzo vestito da donna. Quando un uomo etero si veste da donna per spassarsela sessualmente, quello è un travestito. Quando un uomo è una donna intrappolata nel corpo di un uomo e si fa un’operazioncina, quello è un transessuale.»
«Questo lo so!»
«Quando un gay, invece, è fornito di fin troppo senso dello stile per un solo sesso, quello è una drag queen.»
da A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar, film del 1995, regia di Beeban Kidron
La prima volta che ho visto una drag queen ero alla serata karaoke di un pub di Pisa. Era anche la prima volta che entravo in un locale gay, e se non ci fossero state Magdalene Strass e la Markesa a fare le cretine insultando i partecipanti mi sarei probabilmente sentito un po’ meno a mio agio. Un altro momento interessante dell’inverno seguente è stato quando una Regina Miami visibilmente schifata cercava di scacciare via a calci due etero che stavano comodamente limonando sdraiati sul palco. La ragazza della coppia era amica mia. Qualche anno dopo alcuni amici mi portarono a ballare nonostante mi fossi appena lasciato (di solito è un errore). Vidi Dayana Original Doll che provò a rincuorarmi: “tesoro, non essere triste, potevi nascere storpio!”.
Insomma, è chiaro da questi brevi stralci di vita che le drag queen abbiano sempre rivestito un ruolo fondamentale nella mia crescita. Quando poi mi sono appassionato a Rupaul’s drag race, il talent che ogni anno premia la drag migliore d’America, ho anche iniziato a capire quanto lavoro ci sia dietro questa professione. Forse dire che fare la drag queen è una professione è riduttivo, ma ci ritornerò dopo.
Le regine d’oltreoceano sono per certi aspetti molto diverse da quelle italiane. Non penso che le due realtà siano paragonabili, anche se naturalmente si parla sempre di uomini vestiti da donna. Per dirla brevemente, in Italia fare drag è ancora un fenomeno di nicchia, mentre negli Stati Uniti è una forma di intrattenimento molto più popolare – lo dimostrano i dati di ascolto delle trasmissioni televisive che ne parlano (e il loro proliferare) e i migliaia di video che ne parlano su YouTube.
Venerdì scorso sono stato alla finale di Miss Drag Queen Italia, probabilmente il concorso italiano più importante per le drag queen. Esiste dal 2003, ma è la prima volta che andavo dal vivo. È stato incredibile. Pensavo che avrei visto una gara un po’ raffazzonata, con una decina di scappate di casa intente a mettere in piedi qualche numero idiota. Ed è andata proprio così, con la differenza che tutte queste pazze sono professioniste che hanno lavorato sodo per inscenare i loro numeri, e alla fine hanno creato uno spettacolo coi fiocchi.
È stato tutto molto oltre le mie aspettative, a cominciare dalla padrona di casa, La Wanda Gastrica, che ha organizzato e condotto la serata. Sono state eccezionali le madrine (mi sono rimaste nel cuore Ivana Tram e Sheila De Rose, ma anche Peperita, Simona Sventura, Doretta, Lazia Tiffany, la Milonga, okay, potrei veramente citarle tutte) che con il loro talento comico hanno intrattenuto il pubblico per quattro ore di show.
Ma sono state eccezionali soprattutto le partecipanti, da cui non mi aspettavo niente più che una risata e qualche lustrino. Ho visto un lypsinc incredibile, quello di La Diamond, sulle note di una canzone araba con tre o quattro cambi di look; c’è stata Kaya Mignonne che è partita da una canzoncina del ’36, “Oh capitan c’è un uomo in mezzo al mare”, per finire a raccontare il dramma dei migranti sulle note di Aquarius. Rubizio Liberato, una drag coi baffi, ha recitato un testo sulla visibilità prima di far salire sul palco un esercito di manifestanti orgogliosi; e Dharla Away ha portato in scena un tema come l’omocausto. A essere incoronata è stata la bellissima concorrente della Liguria, Chanel Monyque. Metto un po’ di foto della serata, che ho preso dalle pagine facebook del concorso e del Mamamia. Il video finale della performance di Rubizio Liberato è di Cinzia Cerchi.
Io non sono una drag queen, e non so cosa significhi esserlo. Probabilmente è un insieme di talento per l’intrattenimento, arte e politica. E forse alcool, okay. Ma anche se non saprei definire una drag queen, sono felice che faccia parte della cultura LGBT+. Le drag queen ci sono state fin dall’inizio, a rendere meno grigie le nostre proteste. Non potrei mai immaginare una forma di spettacolo più perfetta per rappresentare la libertà che il popolo gay sogna da sempre. Grazie di esistere, drag queen.
Roba affine
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Per quanto mi riguarda, il mondo delle drag queen è sempre stato qualcosa di ignoto, quasi come se fosse fuori dalla mia portata. Eppure è da un po’ che questo mondo mi incuriosisce, con i suoi mille colori e le sue mille sfaccettature. Grazie per averne parlato:)