Caro Di Battista, ti spiego con degli schemini il mio punto di vista

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Vi spiego, con calma e rispettando l’opinione di tutti, perché Formigoni è uno schifo umano

 

Siccome adesso va di moda* dire che bisogna rispettare le opinioni di tutti, come se io dovessi rispettare chi si ostina a dire che il Sole gira intorno alla Terra, come se io dovessi rispettare chi con il suo punto di vista sostiene che io non merito di essere considerato uguale a lui, allora, siccome adesso va di moda, cercherò di spiegarvi, con molta calma, passaggi logici abbastanza semplici e rispettando l’opinione di tutti, il motivo per cui Formigoni è uno schifo umano.

Teorema: Formigoni è uno schifo umano.

Dimostrazione:

1) la legge sulle unioni civili – così come quella sul matrimonio ugualitario che sarà approvata successivamente perché è il futuro che sta andando da quella parte quindi fatevene una ragione – avrebbe una grande influenza sulla vita e sulla felicità delle persone,

2) persone che fanno parte di una minoranza (quella LGBT) che ora non gode degli stessi diritti della maggioranza

3) Formigoni sostiene** di fare parte della maggioranza delle persone che hanno già tutti i diritti

4) Considerati i primi tre punti, succede che Formigoni, parte della maggioranza, prende per il culo la minoranza sulla felicità che non avranno.

4.1) è come se dopo l’assassinio di Martin Luther King, un ricco borghese avesse detto “poverini quei tizi di colore e negri vari, non saranno mai come noi bianchi”

4.2) siamo nel 2016 e se escludiamo i cattivi nei cartoni animati non credo di aver mai visto nessuno fare considerazioni su una minoranza come ha fatto Formigoni nel mondo reale

5) Formigoni decide di scherzare, o più esattamente: offendere, non più solo su una questione riguardante i modi effemminati di una persona o chi si porta a letto, cosa a cui tutta la minoranza LGBT è abituata da anni e anni, ma sulle speranze di felicità di un’intera comunità.

6) possiamo concludere che Formigoni non è solo un omofobo servo del potere: è proprio uno schifo umano***.

Come Volevasi Dimostrare.

( caro Roberto Formigoni, se col tuo intervento volevi in qualche modo farmi perdere le speranze in qualcosa, sappi che sono ancora più motivato di prima.
Caro Roberto Formigoni, credimi: qui, il poverino, sei tu. )


* il Family Day e tutti quegli altri gruppetti analoghi si fondano su una cosa molto importante: l’ignoranza della base. La maggior parte delle persone che costituiscono questi movimentini sono ignoranti, disinformate, e incapaci dei più semplici collegamenti logici. Queste caratteristiche sono estremamente legate tra loro, e vengono sfruttate da chi organizza e guida questi radununcoli, che è tanto furbo da rigirare la frittata a proprio vantaggio. Sono personaggetti (cit) che non meritano neppure di essere menzionati, ed è per questo che non parlo mai di Adinolfi, Giovanardi, Miriano e quell’altra grande furbona della Meloni. La loro furbizia sta nel rigirare la frittata, e quindi ecco che nascono espressioni come “buonisti” e “i diritti dei bambini” e “ognuno ha le sue idee”. 
 
** sarebbe troppo facile, qui, fare dell’ironia sull’omosessualità repressa (?) di Formigoni, ma non è così che vorrei argomentare le mie idee 
 
*** non che prima di questa dichiarazione non lo fosse.
 

Ho tanti amici che giocano a calcio e per me possono anche adottare

Ho tanti amici che giocano a calcio o che seguono il calcio. Per me sono okay, li accetto, non ho problemi, io li tollero, io sono una persona tollerante. Certo, meglio se stanno nel loro. Per me quelli che giocano a calcio hanno anche diritto a sposarsi. Be’, a patto che non si chiami matrimonio. Sulle adozioni… eh, sulle adozioni è un altro discorso. Bisogna pensare ai bambini: chi ci pensa ai bambini? I bambini hanno diritto a un giocatore di calcio e a uno di pallavolo.
La cosa che mi dà più fastidio di questa situazione – e mi riferisco al fatto che Sarri, che sarebbe un allenatore, ha insultato Mancini, che sarebbe un altro allenatore, chiamandolo “frocio” e “finocchio”- è che adesso, naturalmente, tutti stanno decidendo se abbia fatto bene o male, se sia giusto o ingiusto, se certe cose dovrebbero restare in campo o arrivare al pubblico.

E in quello sfogatoio dell’ego chiamato social network tutti esprimono la propria libera opinione.

(A me ‘sta roba che anche gli idioti esprimono la loro opinione, e che la gente la apprezzi solo perché è espressa in maniera simpatica, a me ‘sta roba non riesce tanto tollerarla, ma immagino di essere nel torto, in questo, quindi lo scrivo in piccolo e tra parentesi. Nutro una piccolissima speranza: che questo dibattito porti finalmente a qualcosa.)

Nessuno che sappia davvero cosa voglia dire sentirsi dire frocio, tra tutti questi intelligentoni. O nessuno che magari è anche divertito dall’essere chiamato frocio, ma che è preoccupato dalla reazione che può avere chi non è già così forte.

E pensare che ieri sera, una gelida sera del gennaio duemilasedici in cui ancora in Italia ci si domanda se frocio sia un insulto, a pochi giorni dalla discussione in Senato sul fatto se due omosessuali possano costituire una famiglia, ieri sera arrivava anche la notizia della morte di Ettore Scola, un uomo che la risposta ce l’aveva trent’anni fa.

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«Eppure ci dovrei essere abituato, fin da ragazzo, o isolato o solo! Che poi… è la stessa cosa. Ma certo che conti! Solo che è tutto così assurdo. Secondo loro dovremmo sentirci in colpa. Oggi stavo… come si dice… stavo per commettere una sciocchezza. Mi ha salvato l’arrivo di una che abita qui vicino. No, è sicuro, la vita, qualunque sia, vale la pena di essere vissuta, si dice così. E poi arriva sempre un pappagalletto a ricordarcelo. Solo che oggi per me è una giornata particolare, lo sai? È come in un sogno quando… quando vuoi gridare e non ci riesci perché ti manca il respiro! Però ho voglia di parlare! Parlare! Parlare! Te ne accorgi vero? Oppure che ti devo dire? Scendere nella strada, fermare il primo sconosciuto e raccontargli tutti i fatti miei, ma fino a spaventarlo! A scandalizzarlo! A menargli, sì!, a fargli del male! Qualunque cosa, piuttosto che stare solo in questa casa che odio. Non dici niente? Pronto? Marco! E parla, cazzo! Ma di’ qualcosa! Ma quello che vuoi… non lo so, parla del tempo, di sport, di un libro che stai leggendo! …scusami. Sì, lo so quello che senti anche tu. No, no… lo sai che non possiamo vederci. E poi, forse sarebbe anche peggio. Senti, quando si è scoraggiati bisogna trovare la forza di reagire, e subito, se no… non c’è niente da fare e sei fregato! Capisci? …senti! Perché non ci ridiamo sopra? Eh? Senti… piangere si può fare anche da soli, ma ridere bisogna essere in due! Ti ricordi quella volta a Ostia con quello lì del cocomero? Ma ridi, Marco, ti prego, ridi! …che amico triste mi sono scelto. Sai cos’è che mi peserà di più? La tua mancanza. Curati. Fammi sapere della tua salute. Sì, appena succede ti richiamo. Ciao. Pensami quando vuoi.»

Si fa per parlare

La cosa che mi dà più fastidio sentir dire, dopo il piuttosto che con la funzione di oppure e i verbi tipo scendere e uscire usati transitivamente, è la frase: si fa per parlare. Siamo nel duemilasedici, e trovo che sia molto idiota trattare certi argomenti come disquisizioni “tanto per parlare”. Proprio oggi che i social costringono anche i bovini ad avere un punto di vista assolutamente non richiesto su tutto; e proprio oggi che veniamo da un decennio in cui persone come Selvaggia Lucarelli o il professor Meluzzi hanno guadagnato del denaro con la professione dell’opinionista; proprio oggi bisogna stare attenti a ciò che si dice, e soprattutto all’urgenza con cui lo si dice.

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Facebook is the new bar, è vero. Quello che fino a qualche anno fa dicevamo alla vicina di casa, o al nostro barbiere, con nessunissima conseguenza sugli altri, adesso diventa un post, un tweet, uno status, che potenzialmente può essere letto da chiunque nel mondo. Bene, benissimo, che strumento eccezionale, se fosse usato con senso critico. Forse sarò io troppo esagerato, ma credo che per esprimere un’opinione, soprattutto se questa opinione viene esternata a tutti, bisogna essere molto informati e bisogna sforzarsi di mettersi nei panni di chi, quelle opinioni, le considera vere e proprie battaglie, cose che gli stanno davvero a cuore, cose per cui prova un’urgenza.

Quello che voglio dire è che ci sono questioni su cui è proprio indelicato, ingiusto e imbecille “fare per parlare”. Fareste mai una battuta razzista a un nero del 1970? Scherzerete mai sull’AIDS con la moglie di un sieropositivo? Parlereste dei tumori con leggerezza di fronte al figlio di una malata di cancro? Io credo di no, e reputo un imbecille chi fa per parlare solo perché è ingenuo o ama provocare o segue la moda dell’essere stronzi.

Il mio amico Tiziano non parla mai tanto per parlare. Discutere con lui mi piace perché sembra capire l’urgenza del suo interlocutore, la rispetta e anzi, cerca di entrarci in sintonia per costruire un’opinione lucida, informata, e al contempo sentita. Poi certo, Tiziano ha anche altri difetti che mi trovo costretto a enucleare affinché non si monti la testa, come il fatto che mette due chili di sale nell’acqua della pasta, che il suo modo di ascoltare è fissarti immobile in una maniera quasi inquietante, e che considera gradevole il suo abbigliamento costituito da… credo sia canapa.

A Tiziano interessano molto le tematiche lgbt. È stata una delle prime persone con cui ho fatto coming out, momento che non dimenticherò mai:

«Ehm, perché mi fissi così?»
«No no ti stavo ascoltando»
«Sembravi come bloccato, cioè era strano, non ti muov//»

«HA! E io che pensavo che fossi innamorato di Rebecca»

Be’, qualche sera fa, Tiziano ha esordito così: «Ale, hai sentito, pare che le unioni civili siano una certezza ormai.» Probabilmente si aspettava una reazione, se non proprio felice, almeno speranzosa; invece io l’ho guardato con una faccia da BITCH NO, che deve essere sembrata simpatica come al solito, poi ho pensato che Tiziano meritava una spiegazione più articolata, che articolerò di seguito, casomai a qualcuno interessi.

Spero che approvino il ddl Cirinnà sulle unioni civili, perché credo che in Italia sia l’unico modo affinché la società inizi a vivere (non “accettare”, vivere) le coppie gay. Tuttavia:

1) le unioni civili non sono un matrimonio, per ragioni puramente tecniche. A parte alcuni diritti che non sono coperti dalle unioni civili ma che lo sono dal matrimonio, c’è la questione adozioni che manca.

2) le unioni civili non sono un matrimonio. Per un importantissimo principio di uguaglianza. Io in questo momento non ho intenzione di sposarmi, perciò non ho interessi nel portare avanti la mia posizione se non davvero il fatto che mi sta a cuore il principio. Un eterosessuale può scegliere tra unioni civili e matrimonio. Un omosessuale può scegliere solo le unioni civili, che non sono tecnicamente identiche a un matrimonio. Non stiamo parlando di entrare in chiesa con l’abito bianco, non è di quello che ci importa, ma di non essere considerati coppie di serie B.

3) ho paura che se le unioni civili verranno approvate, saranno legittimati discorsi come “Oh, ora vi potete unire civilmente, accontentatevi eh, basta gay pride, basta manifestazioni, basta attivismo”. Mi dispiace, ma non funziona così. Finché le unioni civili non saranno davvero la stessa cosa del matrimonio, potete scordarvi che smettiamo di chiedere diritti che ci spettano.

4) queste unioni civili non sono un successo. In Olanda esistono dal 1989 (adesso in Olanda c’è il matrimonio, tanto per dire). L’Italia è l’ultimo Paese dell’Occidente a esprimersi a riguardo, e lo fa perché è stata multata dall’Unione Europea. Tutte le proposte di unioni civili degli ultimi venti anni si sono concluse con un nulla di fatto.

Tutte queste cose, il mio amico Tiziano le sapeva. Confesso di averlo usato come pretesto per mettere le mani avanti. Per prepararci. Perché certo che io spero nelle unioni civili, e certo che sarò in piazza a manifestare, come sempre.

Ma sento anche di dover precisare una cosa che a molti, forse, sta sfuggendo. Se approveranno le unioni civili non dirò grazie a nessuno, né esulterò una legge che andava fatta tanto tempo fa e che ora siamo stati obbligati ad avere.

Festeggerò il primo passo di una lunghissima lotta, consapevole che sarà solo il primo passo.

Due sogni a caso

Ho sognato di essere un gatto di nome Avanzi. Ero in una discoteca per gatti gay e c’era un enorme gomitolo che penzolava dal soffitto – immagino fosse l’equivalente per gatti che il mio subconscio utilizza come mirror ball. Le canzoni erano diversi tipi di miagolii remixati in chiave techno house e tutti i felini presenti si comportavano in maniera molto schiva, come effettivamente farebbe un qualsiasi gatto gay o anche solo un gatto o anche solo un gay, muovendo la testa a tempo in maniera tenera. A un certo punto entravano i miei amici gatti gay dicendo: “Cerchiamo Avanzi” e qui mi sono svegliato perché ho riso forte.
Accludo immagine di gatto.
Ho sognato che Ania diventava una famosa scrittrice parlando male della mia famiglia. Ania è una ragazza di Chernobyl che mia nonna ha ospitato per qualche estate, ormai venti anni fa. All’interno del mio mondo onirico, scoprivo che è diventata famosa in Russia sostenendo nella sua autobiografia che mia nonna fosse una strega chiamata Gabriella e io un viziato, entrambe affermazioni falsissime dal momento che mia nonna si chiama Irene. Il libro è stato poi pubblicato in Italia da Adelphi, che lo ha fatto uscire con una copertina azzurra e una criptica immagine di una matrioska, oggetto delizioso che peraltro Ania ci ha regalato davvero.
Accludo immagine di atleta russa.

L’interpretazione migliore vince una crocchetta.

Cose per cui vale la pena tirare a campare

L’inverno sta arrivando, e io non mi sono ancora comprato degli scarponcini adeguati.
La vita oltre il piumone mi risulta sempre più difficile, tanto che ho deciso di prendere un fogliaccio e scriverci sopra i piccoli motivi concreti grazie ai quali riusciamo ad alzarci dal letto. Non morire di fame è la prima cosa che ci viene in mente, a noi simpaticoni della domenica, ma io vorrei buttare giù un elenco di cose per cui vale la pena tirare a campare.
la foto allegra di inizio post, benvenuti sul blog

L’ho chiamato proprio così: cose per cui vale la pena tirare a campare. Avrei voluto un titolo più sintetico e magari hashtaggabile, ma #cosepercuivalelapenatirareacampare era un po’ lunghino. Potevo optare per l’acronimo: #cpcvlptac, ma no, sembra un balbuziente pugliese in vena di offenderti.
Oppure c’era il metodo Aviazione. Una mia amica fa la hostess e mi ha detto che il codice identificativo dei membri della crew si compone delle prime quattro lettere del cognome seguite dalle prime due lettere del nome. È stato veramente molto divertente realizzare che il mio nome da stewart è BIANAL. Lasciamo perdere.
Potrei inventarmi una parola. Tipo, pigio a caso lettere sulla tastiera e viene: dengloich. E poi, dato che la useremo tutti quanti, piano piano entrerà nel vocabolario italiano. E io sarò ricordato come Alessandro Bianchi detto Tredici, l’inventore del termine dengloich. Non è male. Allora è deciso, dengloich.
dengloich
anche conosciuto come
cose per cui vale la pena tirare a campare

Uno. Il cwtch, che è una parola gallese che significa: il posto sicuro che ci dà la persona amata. Un abbraccio un po’ speciale, insomma. Ora, non so come facciano i… ehm… i galli a pronunciarlo, ma il mio cwtch è senza dubbio una delle cose per cui vale la pena tirare a campare.
Due. Le mail di Gaia, ovverosia la mia coinquilina pazza che ha deciso di mollare tutto e partire per le Americhe e girarsele facendo autostop e soggiornando grazie al couchsurfing. La cosa per cui vale la pena tirare a campare sono i suoi racconti, che mi portano per un po’ da un’altra parte del mondo, ed è bello.
Tre. I biscotti di mia mamma. Ciao mamma!

(lo so che sei contenta se ti saluto in diretta) (adesso starà facendo vedere questa cosa alle colleghe) (per poi promettersi mentalmente di farmi quintalate di biscotti per premio) (un saluto anche a papà!)

Quattro. Il seguente enunciato: il mio amico Ciccio fa il professore. Insegna Italiano e Storia, come sarà risultato chiaro a tutti quei parenti che durante il cenone di Natale del ’97 lo hanno visto correre per la stanza con in testa la scatola del pandoro gridando SONO ASSURBANIPAL. Ma la cosa per cui vale la pena tirare a campare è che, dopo aver sentito che due suoi alunni si offendevano col termine “frocio”, gli ha fatto cercare quella parola sul dizionario, arrivando a far dire loro che essere gay non è un’offesa.

Cinque. Med Man. Ho una storia con Don Draper più intensa e duratura di quella con svariati miei ex.

Sei.

Sette. Poiché ho osato dire al mio capo che non ero a conoscenza della partita di calcio che si sarebbe tenuta la sera stessa, egli ha pensato di replicare chiedendomi se io a cena parlassi di Proust o declamassi Prévert. È buffo come appaia quasi automatico che se segui il calcio devi essere una capra ignorante, mentre se non lo segui sei chiaramente un intelligentone. La cosa per cui vale la pena tirare a campare è pensare che gli argomenti di cui parlo più spesso a cena non sono Proust e Prévert, ma le drag queen.

Otto. La ricetta del vin brulé, che è semplicissima e molto efficace. Basta seguire quel noto blog culinario che in questa sede chiameremo Verde Rosmarino. Dopo sette visualizzazioni della video-ricetta del vin brulé, mi sono deciso ad andare al mercato. Io in cucina adotto un sistema scientifico: cioè per me non esistono i concetti di “quanto basta” o di “a occhio”. Pertanto poco mi importa se lo speziere sgrana gli occhi quando gli chiedo sedici chiodi di garofano. Il vin brulé, caldo e magnanimo, è venuto precisamente buonissimo, ed è una cosa per cui vale la pena tirare a campare.

Nove.

Dieci. I miei amici amicosi. Questa lista, in realtà, continua, e se davvero ci penso mi accorgo che le cose per cui vale la pena tirare a campare non entrano tutte in un fogliaccio. Solo che non me ne accorgo mai. Come direbbe Kurt Vonnegut (che probabilmente sarebbe stato una drag queen incantevole): non ci faccio caso.

Sette anni tra parentesi

Oggi Zucchero Sintattico compie sette anni di permanenza sulla rete, e siccome sono una persona che si prende molto sul serio ho deciso di organizzare una piccola festicciola virtuale. Inutile dire che, be’, sarà il floppone del secolo, quattro gatti in croce, du’ stronzi, seguito meno della seconda stagione di True Detective, ecco, perché noi zuccherini sintattici siamo pochi (seppur belli, soprattutto dentro).

Ma SETTE anni sono tanti, zuccherini. Sette come i re di Roma, sette come i colori dell’arcobaleno, sette come i nani, sette come le spose e sette come i fratelli, sette come i giorni della settimana, sette come le note musicali, sette come i mari secondo i greci, sette come le vertebre cervicali, sette come i peccati e le virtù, sette come i giocatori di Quidditch, sette come BUBUSETTETE, sette come le ossa del tarso nel piede umano, sette come la famiglie dei roditori sciuromorfi, e sette come le volte in cui ho dovuto aprire Wikipedia per scrivere questo inutile elenchino.
Proprio perché sette anni sono tanti, domenica prossima ho deciso di dare una festa. Cioè: non davvero, non sia mai che trovi una scusa per uscire di casa. Una festa virtuale, a cui partecipare comodamente seduti dal proprio divano o, nel caso dell’attuale re dei sette regni, dal proprio trono di spade.

Una festa dedicata a chi mi segue da sempre, ma anche a chi mi segue una volta ogni tanto. Non la voglio fare troppo melodrammatica quindi eviterò il discorsino toccante, anche se sarei capacissimissimo di scrivere un componimento epico e commovente, con circonvoluzioni retoriche da far impallidire i migliori sofisti del pianeta, e auspicabilmente emozionarvi fino a farvi gonfiare gli occhi e vedervi scendere una lacrima lungo il viso, rapida ma delicata, per poi annuire con orgoglio mentre ve la asciugate, mormorando: “Ah, Zucchero Sintattico, quello sì che è un blog”.
Ecco l’invito:
(lo so, è su facebook, mi dispiace per chi non ha facebook, come ad esempio il mio amico che assomiglia a James Blunt. Magari, chi ci tiene può scrivermi nei commenti, tipo)
Cosa succede in questa festa? Sostanzialmente niente: è solo una cazzata in più. Ma se volete, potete scrivere un pensiero, vestirvi a festa e pubblicare una vostra foto, chiedere una canzone al dj, fare delle cose zuccherose, mandarmi dei fiori, dedicarmi una stella o intestarmi un assegno. Insomma, quello che volete. Potete invitare chi vi pare, gli imbucati sono i benvenuti. Gradito il dresscode a righe, e tanti biscotti.
Tra parentesi: Happy Blogday!