Non ti puoi sedere con noi

Uno dei miei film preferiti è Mean girls, che spero conosciate altrimenti c’è la discreta possibilità che leggiate questo blog senza capirne l’ironia, oppure perché siete mia mamma. A proposito, ciao mamma. 
Mean girls è una delle mie principali fonti di ispirazione, insieme a Paperoga, ai biscotti tarocchi della Lidl e al barbone di Borgo Dora convinto di essere un grande architetto. Potrebbe sembrare un film per ragazzini deficienti, ma col passare del tempo mi sono accorto che la sua brillantezza sfiora la genialità, ed è anche costruito in maniera perfetta dal punto di vista della sceneggiatura che, a proposito, è di Tina Fey, e lo scrivo perché sarebbe bello se si cominciasse ad apprezzare anche il cast tecnico di un film, oltre che gli attori famosi. 
La protagonista di Mean girls è una ragazza (interpretata da una Lindsay Lohan ancora libera di circolare nello Stato americano e pertanto poco interessante ma per fortuna dopo poco ha iniziato a farsi arrestare a intervalli regolari) che si trova a dover frequentare la scuola superiore dopo tanti anni in cui ha vissuto in Africa con i genitori archeologi. Scopre presto che il mondo dei teenager è forse peggio di quello animale. 
Al vertice della giungla sociale ci sono tre stronzette soprannominate “le barbie”, che la nuova arrivata vuole cercare di sabotare. 
Considero Mean girls una specie di Bibbia. Fate conto che farò cominciare il video del mio progetto scolastico finale con un estratto del film. Soprattutto, utilizzo Mean girls per capire cose della vita.

Una cosa accaduta in questi giorni mi ha ricordato di quando, a quindici anni, il giovane controllore di un treno volesse multarmi perché secondo lui le mie scarpe poggiate sul sedile di fronte al mio avrebbero danneggiato irreparabilmente il vagone. Ora, io non sono mai stato un ribelle, se si escludono occasioni in cui sono effettivamente andato contro corrente, come quando leggevo i racconti dell’orrore di Poe in spiaggia o quando mi ostino ad abbinare fragola e cioccolato, il cui connubio nel gelato “è un delitto”, cit. Non si poggiano i piedi sui sedili, è vero, e colgo l’occasione per scusarmi con tutti i sedili del mondo che si possono essere sentiti offesi dal mio gesto, e mi scuso anche con tutti i potenziali culi che si sarebbero potuti sedere su un sedile così compromesso. Ho sbagliato, ho agito sovrappensiero, è vero. Ma bastava dirmi di togliere i piedi. Okay, è successo a me, e sono di parte, naturalmente. Ho sbagliato, ma per certi sbagli non c’è bisogno di una punizione. E in effetti il controllore si è esibito nella sua sfuriata, ma poi ha lasciato perdere.

Mi sono accorto che è successa una cosa simile anche in Mean girls. Regina George si era presentata al tavolo delle barbie in tuta, ed era lunedì. E le barbie non indossano la tuta di lunedì, mai. Gretchen Wieners non può sopportarlo, e istericamente grida a Regina: “Non puoi sederti con noi!”.
Non puoi sederti con noi è il modo con cui io chiamo i momenti in cui qualcuno non riesce a raccogliere un po’ di buon senso per capire che si può sbagliare. E che la reazione deve essere proporzionata.

The importance of being a loser

La questione non è essere o non essere. Non è mai stata davvero la questione per nessuno, quella. 

Nell’episodio che sto per raccontarvi la questione potrebbe invece ricondursi all’essere sfigati o non esserlo, ma con un abile stratagemma narrativo che nel linguaggio tecnico si chiama promessa e che serve per incuriosire lo spettatore dandogli un motivo per seguire la storia fino alla fine vi anticipo che non è nemmeno questo, il punto. 
La questione non è la serie di eventi che comincia con l’orario assassino di questa settimana di lezioni per il quale non riesco a trovare altro giorno per andare a fare la spesa se non l’ultimo del weekend, durante il quale il cielo non è esattamente sereno come è stato fino al venerdì ma non si preannunciava nemmeno troppo catastrofico, con quel solito alone grigio che separa Torino dal sole.
La questione, dunque, non è la puntualità con cui un cataclisma atmosferico, che i meteorologi stessi si rifiutano di chiamare pioggia data la portata e la forza dell’evento, si è abbattuto su di me non appena, carico di borse, ho messo piede fuori dalla Lidl, bensì che, nonostante gli dèi o il caso o la sfiga cosmica abbiano mandato un temporale ad accompagnarmi precisamente per il tragitto dal supermercato a casa, io avevo l’ombrello.
La fortuna, a volte, si impara.

Ricordami

Non vorrei passare per superficiale, ma mi piacciono molto gli addominali.

Anzi. Siamo su internet, quindi non vedo perché non dovrei sputtanarmi completamente per evitare di dire che la superficialità è una cosa meravigliosa.

Anzi, no, cambio idea di nuovo. Siamo su internet, quindi non vedo perché non dovrei dimostrarmi un perfetto incoerente contraddicendomi subito e affermando, dunque, che la superficialità non è affatto una cosa meravigliosa, ma perlomeno è innocua, e spesso fa ridere.
Quello che davvero detesto è quando, in un delirio di onnipotenza causato probabilmente dal prendersi troppo sul serio, si nasconde il proprio essere vuoti dietro un telo di finta drammaticità, di toni pesanti, di pretese e premesse profonde. Esibire una presunta profondità non è altro che una subdola forma di superficialità.
Per esempio, recentemente mi è capitato di entrare in un palazzo che avrebbe dovuto pullulare di scrittori e poeti e personalità importanti, e le premesse facevano ben sperare date le dimensioni dell’edificio e la sua fantastica posizione nella penisola di Manhattan. Invece, non appena varco l’ingresso e il consierge mi augura buona serata e l’ascensore mi porta al dodicesimo piano, io entro nell’appartamento dall’incantevole vista sul fiume Hudson per poi accorgermi che sono in un posto completamente vuoto, circondato da persone il cui spessore era in tutta probabilità soltanto virtuale. Mi sembrava di essere in un rendering dell’Expo.
Ma torniamo ad argomenti più maturi: gli addominali.
Mi trovavo in una discoteca e, contrariamente al resto degli esseri umani presenti, ero sobrio. La combinazione discoteca – sobrietà non è mai un connubio favorevole, intanto perché pone degli evidenti limiti alla comunicazione con terzi (ricordo un tipo il cui alito puzzava di vodka mentre mi diceva che non era ubriaco e che mi salutava tanto sua zia) e poi per la difficoltà ad apprezzare il mondo. Così mi sono concentrato sull’aspetto più gradevole dell’ambiente, e cioè il cubista (il quale, per ragioni prettamente frivole e idiote, sarà d’ora innanzi chiamato Battista il cubista), che indossava degli slip argentati e una sciarpa di lino dorato attorno al volto, coerentemente col tema della serata che credo fosse Agrabah.
In realtà il momento di ammirazione non è durato molto, perché sono stato colpito dal tatuaggio che il ragazzo aveva sotto l’ombelico. Sì, il tatuaggio, il tatuaggio, maledette galline.
Il fatto è che proprio in prossimità dell’ombelico aveva scritto «Ricordami».
Così ho iniziato a pensare ai motivi che dovrebbero spingere qualcuno a tatuarsi Ricordami sugli addominali, e ho concluso le ipotesi che seguono.
1) Battista il cubista era innamorato di una persona, che però l’ha lasciato. Lo distruggerebbe sapere che quella persona si è rifatta una nuova vita con qualcuno che probabilmente è più alto di lui, più affascinante e più bravo a Nomi cose e città, così spera che tatuandosi «Ricordami» sull’addome, il vecchio amore non dimentichi i bei tempi spesi con lui.
2) È il contrario, e cioè è l’ex di Battista il cubista che, dopo essere stato lasciato, preso dalla disperazione lo ha tramortito per poi tatuargli «Ricordami» sulla pancia. In questo modo, ogni volta che Battista si farà un selfie in palestra, non potrà sottrarsi alla memoria.
3) Battista il cubista soffre di perdita di memoria a breve termine come quel pesce viola amico di Nemo che avrebbe bisogno di ansiolitici, così, temendo di fare del male a qualcuno e scordarlo poco dopo, si tatua «Ricordami» sugli addominali, come monito. Una specie di Memento ambientato in una discoteca gay.
4) Ci sono tanti modi di creare un promemoria. Per esempio, io mi scrivo una nota sul cellulare. Mia mamma si mette la fede nell’anulare della mano destra. Salvini lo incide sulle roulotte dei rom con lo spray rosso. E Battista il cubista se lo tatua addosso.
5) Battista il cubista è un tamarro.

Gli ombrelli cinesi

L’inferno sono gli altri.
– Sartre
You can stand under my umbrella.
– Rihanna
Siccome mi piace cambiare, compro sempre gli ombrelli nei negozi dei cinesi. 
Mi sono ritrovato in una strada di Torino senza essere in possesso di un ombrello. Si è messo a piovere, perché presto o tardi succede, che piove, e a Torino tende a succedere prima. Sapete, qua piove molto, e all’inizio non ci ero abituato. Non che nelle altre città non esista il maltempo, ma a Torino la pioggia fa parte dell’immaginario collettivo, un po’ come le gondole a Venezia, le piadine a Rimini, i fashion blogger a Milano
Di solito capita che dopo le prime settanta gocce di pioggia accorrano in nostro soccorso svariate decine di venditori dotati una straordinaria quantità di ombrelli. In quell’occasione non è successo, cosicché sono entrato in un negozio di cinesi. Quando parlo di “negozio di cinesi” non intendo un posto dove vengono venduti cinesi, sebbene gli esseri umani siano l’unica cosa a non essere commerciata in questo tipo di negozi: qui puoi trovare qualsiasi cosa, dalle scarpe tarocche alle paperelle da bagno. Lo scatolone fabbricone dell’Albero Azzurro altro non è che una versione portatile di un negozio di cinesi. Dodò cucina i gatti nella wok. 
Così sono entrato e ho chiesto un ombrello. La tizia alla cassa, che è magra e coi capelli neri e probabilmente è la stessa in tutti i negozi di cinesi d’Italia, mi ha indicato una scatola piena zeppa di ombrelli di vari colori. Ne ho comprato uno bianco, intanto perché quello leopardato non credevo s’intonasse con la mia giacca, e poi perché spinto da una solidarietà multietnica volevo evitare alla signorina l’imbarazzo di dover pronunciare un colore con la erre (“pel questo omblello velde lamallo elettlico sono tle eulo e tlenta, glazie”). 
Ma con l’ombrello bianco non ha funzionato. Quella sera sono uscito con un ragazzo, e per per non sembrare Glinda la Strega buona del Sud, mi sono fatto un pezzo di strada sotto la pioggia. Meno male che a Torino ci sono i portici, e che gli ombrelli cinesi sono praticamente usa e getta.
Ben presto, infatti, sono finito in un negozio di cinesi a comprarne un altro. Stavolta me ne sono fregato altamente degli inevitabili difetti di pronuncia della tizia magra e dai capelli neri che costituiva la prova vivente che la scienza orientale è già arrivata alla clonazione umana, e ne ho comprato uno rosso. “Sì, vorrei questo ombRello Rosso non pRopRio poRpoRa ma più scaRlatto, gRazie.” Quando voglio so essere davvero uno stronzo, anche se poi i sensi di colpa sono così forti che mi chiudo in casa per una settimana a scrivere post dalla dubbia moralina filosofica. 
Ma nemmeno col rosso è andata bene, perché poco dopo aver dispiegato le sottili ed estremamente fragili stecche dell’ombrello mi sono accorto che quel colore in mano ai cinesi è terribilmente acceso. Non per niente lo mettono anche sulla loro bandiera. Mentre giravo per le strade grigie di Torino, ero una patacca rossa in un film in bianco e nero. Sembravo la bimba di Shindler’s list, e tutti noi sappiamo la fine che fa.
Ma tanto l’ombrello si è rotto dopo pochi giorni, e rieccomi dentro un terzo negozio di cinesi dove trovo la tizia magra e dai capelli neri che forse non sarà l’equivalente umano della pecora Dolly ma allora è di sicuro il prodotto di un immenso parto plurigemellare. Stavolta scelgo un ombrello nero. Raffinato, elegante. Il nero sta bene su tutto, e oltretutto sfina. L’ombrello nero si amalgama nell’aria uggiosa, non c’è contrasto né stonatura, una perfetta soluzione per passare inosservati e in qualche modo perseguire la normalità.
Oggi ho incontrato una sconosciuta che aveva un ombrello giallo. Ho pensato che non era poi così male. 
E ho notato anche che: nessuno fa caso agli ombrelli degli altri, mai.

Felicità vera

Il cinema è un mondo mostruoso, e non mi riferisco a Cinquanta sfumature di grigio. 

Mi piace molto guardare film perché, oltre al fatto che mi ritrovo in tutti i personaggi complessati dallo sviluppo drammatico, mi succede spesso di concentrarmi sulle cose che ho trovato belle, più che sui difetti. Nella vita non mi accade mai, nel senso che se un avvenimento comporta quasi tutte conseguenze eccezionali io mi concentrerò sull’unica impercettibile sfumatura negativa della situazione. Ma al cinema no, al cinema se c’è anche solo una scena o una battuta di dialogo che mi fa vibrare qualcosa dentro, allora so che i soldi del biglietto sono stati ben spesi.
Comunque, qualche mese fa ho accettato di fare il social media manager per un cortometraggio di alcuni amici, che in parole povere significa che dovevo gestire la pagina facebook. L’esperienza è stata dura ma interessante, e mi ha dato la possibilità di essere sul set nei giorni delle riprese. 
Per questo posso affermare che il cinema è un mondo (meraviglioso ma anche) mostruoso: dovreste vedere la quantità di persone che lavorano insieme per girare una scena. Sono tantissimi, tra attori e tecnici, e tutti quanti che vogliono giustamente avere il loro riconoscimento, e tutti quanti che vogliono fare i registi. Persino io che mi trovavo lì solo per documentare il backstage avrei voluto mandare in culo qualcuno, così, giusto per sentirmi più integrato nel gruppo.
Tra i vari professionisti c’era una donna che non credo di voler nominare, nel caso le venisse in mente di cercarsi su Google, trovare il mio blog e conseguentemente assoldare un sicario per uccidermi nel sonno. Il suo ruolo era quello di casting director, cioè doveva dirigere gli attori bambini del corto. Niente da dire, era molto brava nel suo lavoro. La sua tecnica principale, tuttavia, consisteva nel pronunciare le parole molto lentamente a un tono di voce sorprendentemente alto, un po’ come faccio io quando spiego ai miei nonni come funziona il telecomando, o come fa mia mamma nelle chiamate interurbane.
Ma la cosa che mi è rimasta più impressa della casting director era il modo con cui chiedeva ai bambini di assumere un atteggiamento gioioso. Dovete sapere che la scena prevedeva che dei marmocchi vestiti da scout facessero il saluto dei lupetti con un grandissimo sorriso stampato in faccia; il problema era che a Gennaio, sulle colline torinesi, la temperatura non era esattamente confortevole, pertanto questi poveri figlioli tremavano come gli orfani sfortunati dei romanzi di Charles Dickens.
E la casting director, una volta dato il ciak, urlava loro di essere felici. «Felicità! Felicità!!!» ripeteva prima che partisse l’azione, con gli occhi iniettati di sangue e la voce che assumeva una lieve inflessione germanica. «Felicità vera!» li ammoniva. Eh sì, perché non bastava fare finta di essere felici. Si doveva fare finta di essere felici in maniera autentica. «Martina, cos’è quella smorfia? Superfelicità! Dennis, Dennis, insomma, pensa a qualcosa di bello! Martina, ridi, RIDI, Martina vuoi ridere, eccheccavolo?!»
Stacco. Cambio scena.
In questi giorni sto leggendo un libro di Kurt Vonnegut. Me l’hanno regalato Ciccio, il mio amico che scambia il sale con lo zucchero; Pippi, la mia amica che scambia la salvia per la marijuana (e non vi dico quanto è saporita la sua variante del pollo con patate); e Davide, che è il mio amico da cui è bello andare a cena.
Il libro si chiama Quando siete felici, fateci caso e sono andati a comprarlo Ciccio e Pippi. In questo momento sto ridendo perché sembra una storia di Topolino. Dicevo: il libro si chiama Quando siete felici, fateci caso e sono andati a comprarlo Ciccio e Pippi. Posso distintamente immaginarli alla cassa della libreria, che non si ricordano il titolo.
– Scusi, stiamo cercando un libro.
– Certo, il titolo?
– Mmm, credo Non siate infelici, non è il caso
– Non è in catalogo, siete sicuri che sia questo il titolo?
– Provi con Quando siete felici, siete felici
– Niente.
Se siete felici è solo un caso?
– No
Siate felici ma mai a caso
– Nemmeno
Il caso vuole che siate infelici
– Nisba
– Pippi, lasciamo perdere, prendiamogli la biografia di Beyoncé che è contento uguale.
– In copertina c’è il disegno di un gelato…
– Ah, ma certo: Quando siete felici, fateci caso, di Vonnegut!
– Sì ecco!
Comunque, lo sto leggendo. È una raccolta di discorsi motivazionali che Vonnegut ha letto alla cerimonia di laurea di alcune università americane. C’è un episodio narrato in molti discorsi, e riguarda Alex, lo zio dello scrittore, che nei momenti di più assurda semplicità, come quando era sotto l’ombra di un albero a bere limonata insieme alle persone a cui voleva bene, interrompeva la loro conversazione per dire: «Cosa c’è di più bello di questo?»
La differenza tra me e lo zio Alex è che io ho bisogno di una casting director che mi ricordi che sono felice, felice davvero.

Me lo corrompi, papà?

Il fatto che riesca a ricordare soltanto gli incubi e mai i sogni dovrebbe dare un’idea abbastanza precisa della mia personalità senza aver bisogno di consultare un luminare della psicologia. Quando mi sveglio non ho alcuna memoria di ciò che ho appena sognato e, secondo una rapida ricerca in rete che sconsiglio di effettuare a chi ha il mio stesso problema a meno che non voglia sentirsi un egocentrico e superficiale pezzo di merda, ciò è dovuto probabilmente a una scarsa attenzione per il mondo interiore, insieme a un pesante controllo su sé stessi e a troppa razionalità, oppure a ciò che da quando è iniziato il ventunesimo secolo siamo abituati a utilizzare come giustificazione di ogni nostro comportamento da stronzi, e cioè: “un periodo di forte stress”.
Essendo io molto stressato, succede che dimentico sempre il mio percorso onirico, ed è un peccato perché sono molto attento al mondo interiore, non tendo ad avere un ossessivo controllo su me stesso e sono razionale nella giusta misura, oltre che carino, simpatico ed estremamente intelligente.
Non biasimatemi, dunque, se per una volta che mi sveglio e mi ricordo alla perfezione ciò che ho appena sognato, annaspo con la mano sul comodino alla ricerca del cellulare e mi sbrigo a trascrivere tutti gli avvenimenti prodotti dal mio inconscio; e non biasimatemi se nelle successive due ore ho ammorbato svariati amici con la descrizione del mio incubo; e nemmeno dovreste biasimarmi se uso questo spazio per raccontarlo anche a voi. D’altronde, non mi capita spesso di sognare. E poi, be’, ho sognato Gianni Morandi.
Il sogno inizia in medias res, che è una formula che noi tutti impariamo in prima media senza che poi abbiamo mai occasione di usarla all’infuori della verifica di italiano. Mi trovo in montagna nel cottage di Gianni Morandi e della sua famiglia, e se vi state chiedendo come possa io esservi finito dovete mettervi l’animo in pace perché questo è un punto che non sono riuscito a chiarire nonostante il certosino lavoro di scavo operato sul mio povero inconscio.
Insieme a me, nel cottage di Gianni Morandi c’è il mio amico Ciuffo, che per chi non lo conoscesse è un ragazzo molto simpatico dalla testa tonda e dagli occhi grandi e sinceri, che un tempo aveva un pugno di capelli che svirgolavano verso l’alto conferendogli il soprannome con cui ancora oggi lo chiamano gli amici e perfino una considerevole parte di parentame.
Il buon vecchio Gianni Morandi è un ottimo padrone di casa. Ci accoglie con grandi sorrisi e parole ospitali. A un certo punto, apre un portone che dà niente meno che su una discesa di neve. Senza interrogarsi sul perché Gianni Morandi dovrebbe avere una pista per slittini in casa, il mio amico Ciuffo afferra un bob lì vicino e si getta tutto contento; io, che sono notoriamente più palloso, ringrazio Gianni Morandi dell’occasione ma gli comunico che soffro di vertigini e che pertanto non usufruirò della discesa. 
«Ma ti prego, Alessandro, dobbiamo arrivare a valle. C’è una sorpresa per voi!» esclama Gianni Morandi con la sua famigerata solarità.
«E va bene, Gianni Morandi, verrò a piedi.»
Una volta a valle, tuttavia, vedo qualcosa di strano. Proprio al limitare della discesa, una decina di sbarre emergono dalla neve. Guardando meglio, vedo che oltre le sbarre c’è il mio amico Ciuffo, evidentemente in stato confusionale. Sono perplesso. Mi volto verso Gianni Morandi per chiedergli se sapesse cosa stava succedendo.
«Gianni Morandi, cosa sta succedendo?»
Nel suo sguardo non c’è più traccia di sorriso. Alcune nervose imperfezioni del fondotinta rivelano delle rughe minacciose che gli rendono il volto vecchio e cattivo. I suoi occhi sono ridotti a fessure.
«Prendetelo» ordina Gianni Morandi, nella sua versione da malvagio dei telefilm anni Ottanta da cui sono evidentemente influenzato altrimenti non sognerei battute di dialogo così tamarre. Il punto è che mi ritrovo accerchiato da omoni nerboruti che mi prendono e mi gettano nella gabbia dove già si trova il mio amico Ciuffo.
La gabbia è circolare – un chiaro tributo del mio inconscio all’ultimo video di Sia – e Gianni Morandi ci guarda attraverso le sbarre. Non è solo: accanto a lui c’è il figlio Marco Morandi. Marco Morandi e Gianni Morandi ci guardano con un misto di serietà e perfida soddisfazione.
«Hai visto, figliolino? Li ho catturati…» dice Gianni Morandi.
«Sei stato bravissimo, papà» risponde Marco Morandi.
Io e il mio amico Ciuffo chiediamo spiegazioni, poi cerchiamo aiuto, ci disperiamo, urliamo, ma invano. Non c’è nessuno nei paraggi, ad eccezione dei due componenti della famiglia Morandi che ci fissano per tutto il tempo. 
«Adesso ci divertiamo un po’» dice Gianni Morandi, quando finiamo di gridare. La sua voce fa paura.
I Morandi inseriscono nella gabbia, uno per volta, una quindicina di pavoni. Il mio inconscio deve aver letto da qualche parte che i pavoni possono essere degli animali estremamente aggressivi. Ad ogni modo, gli uccelli incattiviti iniziano a rincorrere me e il mio amico Ciuffo, che piangiamo, gridiamo, e infine, stremati, ci offriamo ai pavoni per farla finita il prima possibile. 
È a quel punto che Marco Morandi pone fine alla tortura.
«E adesso papà devi corromperli.»
Okay, non ha senso, ma comunque dopo averci fatto rincorrere da pavoni imbizzarriti, i due Morandi ci liberano e ci promettono una quantità esorbitante di denaro in cambio del nostro silenzio.
«Ma quale silenzio, io vi denuncio sul mio blog!» replico io, senza alcuna logica, e proseguo argomentando: «Si chiama Zucchero Sintattico, e racconto i miei pensieri cercando di essere ironico ma offrendo talvolta interessanti spunti di riflessione, per esemp…»
«Infatti!» mi dà manforte il mio amico Ciuffo «e mettete anche il Mi piace alla sua pagina facebook, è molto simpatica!»
«Hai già raccontato dell’incidente?» mi chiede Gianni Morandi, che d’un tratto si è fatto preoccupato.
«Che incidente?»
«Papà, dannazione, ci siamo sbagliati, non sono loro i testimoni oculari del terribile incidente che ho provocato quando la notte scorsa guidando ubriaco ho investito due passanti innocenti dunque è del tutto inutile torturarli e cercare di corromperli in cambio del loro silenzio» conclude Marco Morandi, dando prova che perfino i miei sogni sono didascalici.
All’improvviso, una figura femminile sbuca da dietro un albero. È Taylor Swift, e ha una chitarra.
«Siete spacciati, Morandi: ho già inciso una canzone con la mia casa discografica in cui racconto il misfatto» dice Taylor, tra l’altro un’affermazione del tutto fantascientifica considerando che i testi della sua discografia riguardano amori finiti e irrecuperabili. «Da domani sarà prima sulle classifiche di iTunes, e per voi sarà la fine. Liberate subito Ale e il suo amico Ciuffo!»
Dopodiché mi sveglio, con la sensazione che qualcosa non torni e che, in un certo senso, sia meraviglioso così.

Alla ricerca della lampadina perduta*

* l’autore di questo post precisa che il titolo 
non è una citazione di Proust né un omaggio a Indiana Jones 
bensì a Zio Paperone. Gran ciaone a tutti.
I raggi del sole filtrano dalla finestra e io mi sveglio consapevole che sarà una di quelle giornate meravigliose e ingenue come il look di Paola e Chiara prima della svolta porno.
Invece, poiché niente è come sembra e non si giudica un libro dalla copertina specialmente se è della Gamberale, durante la mattinata si fulmina una lampadina, e questo rappresenta un evento traumatico ai livelli della diffusione di Dubsmash, e per diversi motivi. Innanzitutto perché la lampadina è un oggetto carico di aspetti simbolici come l’idea, la luce, la scoperta, il genio, l’aiutante di Archimede, e tutto questo la rende l’immagine più allegorica del mondo dopo Gesù in croce, ma se fossero esistite le lampadine nel Rinascimento probabilmente gli artisti non avrebbero perso troppo tempo con tutti quei Cristi e si sarebbero dedicati a raffigurazioni più significative, tipo la passione della lampadina, l’annunciazione della lampadina, la resurrezione della lampadina e così via. In secondo luogo, la lampadina in questione è quella delle scale, e siccome sono povero è anche l’unica fonte di luce di camera mia – se escludiamo la luna piena e gli orsi polari sullo screensaver del mio computer.
Insomma, devo procurarmi una nuova lampadina.

La missione si preannuncia semplice. Mi era già successo di dover sostituire una lampadina, e in quell’occasione l’avevo comprata in un negozio vicino a casa. Mi ero trasferito a Torino da poco, e fu una delle prime volte che ebbi a che fare con la disponibilità dei piemontesi. Tutta questa storia dei “falsi cortesi” è una bufala, secondo me. Mi dirigo verso il negozio, ma lo trovo chiuso. Per sempre. I dolci elettricisti piemontesi di fiducia sono andati in fallimento. Mi raccolgo in un minuto di dispiacere e considerazioni generiche sulla crisi, poi l’idea di dover affrontare le tenebre per raggiungere la mia camera prende il sopravvento, e decido di continuare la ricerca.
Passo al setaccio tutte le vie del mio quartiere, che pullula di gallerie d’arte e ristoranti vegani ma nessun venditore di lampadine. Niente. È giunto il doloroso momento di chiedere informazioni. Entro in una lavanderia, facendo subito una bellissima figura perché per via della differenza termica mi si appannano gli occhiali all’istante, e da quel momento in poi procedo a tentoni.
«Una lampadina?» mi risponde una voce maschile vibrante di esperienza in elettronica. «Prova al Carrefour, prosegui dritto per di qua e lo trovi al primo incrocio.» 
Il nonnino ha ragione: nel piccolo supermercato hanno una parete che espone pile, orsetti luminosi e lampadine. Il problema è che a me ne serve una di quelle sottili e allungate, credo si chiamino alogene, e non penso che il Carrefour sia abbastanza fornito.
«Mi scusi.»
«Mi dica.»
«Stavo cercando una lampadina.»
«Guardi, lì, tra le pile e gli orsetti luminosi.»
«Sì, ho visto, ma me ne serviva una di quelle sottili e allungate.»
«Uno starlight?»
«No, no, credo si chiamino “alogene”.»
«Oh, no, non ne abbiamo. Abbiamo gli orsetti.»
Esco dal discount rimuginando che la Lidl non mi avrebbe deluso, e faccio ritorno a casa. Per uno scrupolo improvviso e fortuito, prima di salire mi fermo al tabacchino che sta a due passi dall’ingresso del palazzo. Dietro al bancone non c’è la solita donnona che mi scambia sempre per il figlio dell’avvocato e mi chiede come procedono le mie gare di ballo, bensì il marito, un ometto baffuto che dall’odore di nicotina lo direi capace di attaccarti la polmonite per osmosi.
«Buonasera.»
«Oh, ma buonasera!»
«Scusi, vorrei solo un’informazione. Dove posso comprare una lampadina, in zona?»
«Hai provato al Carrefour?»
«Sì, niente»
«Uhm» il tabaccaio tabagista ci pensa su «Sai dove? Prova dalla signora che vende la frutta, giù per questa via. Suo figlio fa l’elettricista e ci sta che abbia qualcosa in negozio.»
«Provo. Grazie mille!»
«Di nulla! E in bocca al lupo per i tuoi balletti.»
Se mai in futuro qualcuno dovesse domandarmi quale è per me la rappresentazione del miracolo, senza alcuna esitazione io ripenserei al momento in cui, all’interno di un anacronistico negozio di frutta e verdura di via Giolitti, tra ceste di pomodori e peperoni, in mezzo a fasci di sedani e cassette di enormi arance, con tutto un universo di furia e surgelati all’esterno, dentro quella parentesi di tenerezza, mi trovo davanti a donna Maria, perfetta nella vestaglia color ceruleo coi suoi capelli grigi raccolti sulla nuca, che mi porge una lampadina.
L’idea è che le cose non stanno sempre al posto giusto.