Lista di cazzate usate per convincersi che l’unica famiglia possibile è quella tradizionale

Cuore o croce

Ci sono voluti seimila anni, ma gli etero hanno inconsciamente deciso che è il momento di ipotizzare il timido abbattimento delle barriere sessuofobiche. Ho recentemente appreso, infatti, che sta diventando sempre più di moda la migliore invenzione della storia dell’umanità dai tempi della ruota, e cioè Tinder.
Tinder, ovvero una app spietata che consente di trattare sconosciuti e sconosciute come carne da macello, selezionarli nello stesso modo indifferente e consumistico che si usa per scegliere una maglietta da Zara, prendere appuntamento con uno di loro, o due di loro, o quaranta, e farci un po’ quello che si vuole. Meraviglioso, l’idea migliore dopo quella di insediarsi tra il Tigri e l’Eufrate.
Naturalmente noi gay, nei litri di tempo libero che ci avanza poiché non possiamo spenderlo a spedire partecipazioni e costruire bomboniere di porcellana (a proposito, fanno cagare), naturalmente noi gay ci eravamo già arrivati tempo fa a una tale disfatta sociale, tant’è che adesso ne abbiamo un po’ le palle piene di avere sempre le palle vuote e ritorniamo a fantasticare sull’amore e altre deliziose simili amenità, sempre con Express yourself in sottofondo. Noi gay, qualche secondo dopo che Dio ebbe creato lo smartphone, avevamo già Romeo, Grindr, Scruff, Bender, Growlr (che sono nomi fantastici da dare ai nostri gattini quando saremo vecchi omosessuali single e sordi), ossia tutte chat di incontri diverse ma con più o meno gli stessi iscritti, tanto che non si capisce come mai non creiamo un’unica chat oppure non ci troviamo nelle aree di servizio delle autostrade come ai bei vecchi tempi.
Comunque, in una scala da 1 a Miley Cyrus, questo Tinder ha un valore di degrado umano molto elevato. La cosa divertentissima e in un certo senso commovente è che quando lo accendi cominciano ad arrivarti le foto di altri utenti, corredate da una minibiografia e dalla distanza in chilometri dal tuo letto. Ciò che tu devi fare è cliccare sul cuore verde se il candidato è di tuo gradimento, se vuoi farci tanto frichi frichi e concedergli di parlarti, oppure cliccare sulla ics rossa se per te è no, giammai, non se ne parla, sashay away, sayonara eh eh eh eh. Poi il sistema ti manda la lista di tutti quelli a cui tu hai messo il cuore che ti hanno a loro volta cuorato, e con questi puoi decidere di chattare, andare e moltiplicarti. 
Capite bene che il meccanismo è crudele. Cuore o croce. Nemmeno un programma a caso di Federica Panicucci è mai stato così impietoso nell’oggettificazione delle persone. Ovviamente sto esagerando, ovviamente sto portando tutto a una visione superficiale della cosa. Come al solito, non è lo strumento il problema, è il modo in cui lo usa chi lo usa – vale per le chat di incontri, come per i social, come per i mezzi di informazione, come per le bombe a idrogeno. Però il dato da registrare è che siamo arrivati anche a questo: al bivio feroce, all’aut aut. Cuore o croce.
Poiché vorrei terminare questo mio scritto con un messaggio che almeno assomigli a qualcosa di vagamente incoraggiante e non ho la minima idea di come chiosare, vi ricordo un consiglio sempre valido. Usate i preservativi. 

Spericoolata

Avevo molto tempo da perdere ed ero molto ispirato.

Il nuovo lavoro di Tredjci, che sarebbe il mio alter ego per queste cose musicose, si chama Pause, ed è un concept album basato su un principio basilare della filosofia moderna, e cioè che è proprio tanto bello fare le pause.

Questo è il primo singolo, Spericoolata.

Sei anni di zucchero

In tutta onestà non ricordo se alle elementari ci fosse il distributore delle merendine. Non credo, anche considerando che né io né gli altri miei compagni possedevamo il portafogli o qualcosa da metterci dentro. Nella stanza delle bidelle c’era qualcosa che portava a del caffè, ma probabilmente era un thermos.

Le mie scuole medie non ricordo nemmeno come fossero fatte, e questo vi dà un’idea di quanto mi siano piaciute, le scuole medie. Spero di non offendere nessuno, dicendolo. Ma figurarsi, non credo che i membri di quella marmaglia di cattiveria siano capaci di offendersi – né di affezionarsi, scherzare, amare, o provare sentimenti più o meno umani. Ma da qualche parte doveva pur esserci una macchinetta delle bevande, perché ricordo distintamente il professore di musica dire, prima di abbandonarci alla visione di qualche cinepanettone, che intanto sarebbe andato a prendere un caffè.

Ho ben presente, invece, dove fossero posizionate le macchinette e i distributori del liceo. Ma in cinque anni li avrò usati una manciata di volte, perché le mie scuole superiori, oltre a ricordare l’esterno di una prigione e a cambiare ogni anno i docenti di filosofia, erano perlustrate da sinistri personaggi chiamati Merenderi, che a prezzi ridicoli vendevano panini, trecce di cioccolato, focaccine, triangoli, pizzette e (solo alla fine della prima ora e solo al secondo piano) valdostane.

All’università iniziavi a capire le macchinette solo a metà del secondo anno, tanto che ho sempre avuto il sospetto che prendere il migliore caffè facesse parte dell’esame di Analisi. Quella all’ingresso era la più economica, ed essendo lontana da molte aule aveva anche la fila statisticamente più corta; le due nell’atrio centrale avevano perfino il mocaccino con cioccolato; quella al piano di sopra era guasta una volta su due. Invece, c’era un distributore che si bloccava senza darti la merenda, ed eri perduto se non conoscevi il punto preciso su cui puntare la spallata.

Oggi questo blog compie sei anni. L’idea è sempre stata che lo zucchero è la cosa più importante, e che il resto serve solo a sopravvivere. Non sottovalutate mai le cose che non c’entrano niente.

Casistica dell’idiozia

Quando non partorisco idiozie sufficientemente geniali mi sento sotto pressione.
Ragazzi, fidatevi, il mondo di noi sproloquiatori di assurdità è insidioso. Essenziale è la puntualità tra originalità e rispetto del tempo comico; senza considerare l’altissima competizione e le continue reazioni di noiosi umani interessati al tuo livello di tossicodipendenza o al nome del tuo spacciatore, che tra l’altro si chiama Gigino e lavora ai giardinetti tra Regina Margherita e Corso Cairoli.
Per concepire idiozie bisogna essere al posto giusto nel momento giusto. È come trovare un fidanzato. O un fungo.
Le due variabili da considerare, nel caso siate interessati a scrivere idiozie, a trovare fidanzati o mangiare funghi, sono l’originalità (talento, genialità, cose belle) e il momento (culo, fortuna, precisione, tempo comico). Sì, perché è inefficace dire qualcosa di molto stupido se qualcun altro dice subito dopo qualcosa di molto più stupido.
Ne consegue che possiamo elaborare la seguente casistica.
1) originalità alta + momento giusto: è un’idiozia che si prende il suo spazio perché ne ha bisogno per essere efficace appieno. Non ha influenza a livello di trama, se non per caratterizzare un personaggio. 
dal film Pitch Perfect
2) originalità alta + momento sbagliato. Chiariamo subito che per momento sbagliato non si intende l’aver scelto male il punto in cui dirlo, ma anzi proprio a causa del suo essere insolito, il tempo comico riesce. Non ha influenze a livello di trama, ma smorza una situazione troppo razionale con una parentesi, anche impercettibile, di stupidità.

dal film L’era glaciale
3) originalità bassa + momento giusto: corrisponde al distillato di demenza fatto passare per perla di saggezza, e proprio per questo risulta essere assolutamente comico.

dal film Gli Aristogatti
4) originalità bassa + momento sbagliato. Si tratta di una frase stupida, senza alcun intento comico, inserita in maniera avulsa dal contesto. L’effetto sullo spettatore è quello di produrre un certo sconcerto che sfocia presto in copiosa ilarità.
dalla webserie The lady, di Lory Del Santo
Credo sia tutto. 

L’uomo che deve chiedere sempre

Uno degli innumerevoli effetti nocivi della pubblicità, oltre, naturalmente, all’aver creato un immaginario implausibile costituito da famiglie entusiaste già di primo mattino e cerchie di amiche così appassionatamente interessate alla tua naturale regolarità al punto di non sorprendersi delle quaranta scatole di yogurt biologico che riesci a stipare nel frigo, è l’aspettativa instillata a poco a poco nel cervello dei consumatori, come la goccia d’acqua nelle torture cinesi, secondo cui l’archetipo di uomo a cui ambire sarebbe quello che non deve chiedere mai.
Se mi guardo intorno – e guardarmi intorno è un gesto che mio malgrado compio di frequente – constato che il mediatico lavaggio del cervello fondato in maniera più o meno consapevole dalle agenzie pubblicitarie degli anni Ottanta trova oggi una sua finale e mostruosa realizzazione: l’uomo che non deve chiedere mai effettivamente esiste e, a conti fatti, è insopportabile.
Vorrei aggiungere un corollario a quanto appena enunciato: l’uomo che non deve chiedere mai è insopportabile non per sfiga planetaria, né per combinazione genetica sfavorevole. Al contrario, l’odiosità appartenente all’uomo che non deve chiedere mai è volontaria, nel modo più assoluto.
Se non si prefissasse intenzionalmente di apparire antipatico, un uomo che ha tutto pur non chiedendo mai nulla, almeno proverebbe a giustificare il suo successo, parlando magari della fatica e dell’enorme costanza impegnate nella ricerca del risultato, e sicuramente evitando di lasciar pensare che a essere così lo abbia portato soltanto la sua fortuna, la sua bellezza, la sua ricchezza o qualche altra dote posseduta per puro culo
Poiché questo non avviene, ne consegue logicamente che 1) il suo successo è davvero dovuto a fortuna/bellezza/ricchezza/xfactor, cosa che non vogliamo pensare perché siamo a favore della meritocrazia e di altre simili, chimeriche astrusità, oppure 2) apparire antipatico, odioso e insopportabile è intenzionale e compreso nel pacchetto pubblicitario.
Il mio preciso apparire come percettibilmente polemico è perché appartengo al ramo evolutivo che ha portato all’uomo che deve chiedere sempre. La parte più disneyana di me crede che questo mi legittimizzi a sentirmi una creatura di luce, il lato buono della forza, un essere fatato e innocente: un puffo, insomma. L’uomo che non deve chiedere mai, in pratica, è Gargamella. 
È per questo che, nel remoto caso che un uomo che non deve chiedere mai si trovi fortuitamente a chiedermi qualcosa, io lo guarderò col disprezzo con cui si squadra qualcuno di immeritevole, inclinerò le labbra fino a formare un sottile, smaliziato sorriso di soddisfazione, attenderò che la luce del sole rifletta un istantaneo baluginio bianco sui miei occhi e dirò, con tutta l’imperturbabilità di cui sarò capace: CIAONE.
(NdA: l’espressione descritta non coincide a quella ritratta in figura, 
che si avvicina di più alla rappresentazione di “tonno esausto con un bel giaccone”)

Il formaggio con le pere

Oggi vorrei approfittare di questo spazio per disquisire di pere.

Tutto parte da un mio recente pranzo che vedeva come portata secondaria l’accostamento sublime del formaggio con una pera, che avevo comprato al mercato in un raro momento di disposizione alla vita domestica (una parentesi deliziosa della mia quotidianità, in cui passo il tempo a dare l’aspirapolvere in fretta prima dell’inizio Uomini e donne, indossando un grembiulino a quadretti bianchi e rossi). 
Al contadino non far sapere quanto è buono il formaggio con le pere!, mi è uscito detto, sempre vibrante di questa pulsione casalinga. Ho parlato ad alta voce, da solo, con un tono inquietantemente soddisfatto. Sembravo un fotogramma di una puntata a caso di Heidi.
A questo punto mi è venuto involontario riflettere più a fondo. Perché non dovrei far sapere al contadino di quanto sia buono il formaggio con le pere? Già: perché? Ragioniamo. Il proverbio vuole far riflettere sulla ricerca di astuzia da adottare per non venire raggirati da un contadino, che se conoscesse la squisitezza del connubio tra formaggio e pere si guarderebbe bene dal vendertelo o, peggio, offrirtelo.
Ora, tralasciamo il fatto che il detto non si pone proprio la questione che il contadino possa già sapere il valore di quell’abbinamento, come a dire che tutti i contadini del mondo sono dei perfetti imbecilli e che solo noi, scaltri cittadini, siamo gli unici detentori della verità
C’è qualcosa in più che si dà per scontato: e cioè che, qualora l’ignorante agricoltore venisse a conoscenza del suddetto matrimonio culinario, proceda automaticamente con l’aumento dei prezzi dei suoi prodotti, o addirittura col rifiuto di commerciarli e regalarli. L’embargo delle pere
Si assume, dunque, che i contadini siano creature avide e venali, approfittatori di ciò che è prezioso al fine del solo arricchimento personale. Allargando l’allegoria all’intera categoria umana, ne consegue che tutti noi siamo così: egoisti, opportunisti, attaccati al denaro a scapito degli altri.
Vorrei dissociarmi da questa visione catastrofista dell’umanità. Io voglio credere di vivere in un mondo dove un contadino per prima cosa è assolutamente consapevole di quanto sia buono il formaggio con le pere, e che nonostante questo non mi faccia pagare un bene più di quanto costi. Io voglio credere di vivere in un mondo in cui tutti possiamo apprezzare la semplicità di un pezzo di formaggio unito a uno spicchio di pera, senza che questo comporti un prezzo improponibile o inadeguato. Io voglio credere di vivere in un mondo in cui, se sono un contadino o, per estensione, un produttore di qualsiasi bene, materiale o immateriale che sia, te lo cedo in cambio del suo adeguato valore. Infine, voglio credere di vivere in un mondo in cui i contadini mi aiutano ad avere in tavola il miglior formaggio e le migliori pere, capito? mi aiutano, mi aiutano, mi aiutano.

Semplici calcoli riguardo le Sentinelle in piedi

Facciamo due conti.
Le Sentinelle in piedi, che per chi non lo sapesse sono quei tizi che con la scusa della libertà di pensiero manifestano contro la libertà di amare altrui, erano state annunciate su 100 (cento, C E N T O) piazze italiane. 
In realtà, basta andare sul loro sito ufficiale e contare col ditino per scoprire che le piazze che hanno effettivamente partecipato sono state 61 (sessantuno, S E S S A N T U N O), ma probabilmente 100 suonava meglio come numero, per cui gli organizzatori hanno deciso di arrotondare per eccesso di 39 piazze, che corrispondono indicativamente a quattro regioni italiane. 
Quindi, abbiamo 61 piazze. 
Quante sentinelle in ogni piazza? A Torino le sentinelle erano 189 (fonte La Stampa). Arrotondiamo anche noi e facciamo finta che in ogni città partecipante le sentinelle siano state 200 (naturalmente non è vero, nella maggior parte delle città le sentinelle erano un centinaio).
61 moltiplicato 200 uguale (prendo la mia calcolatrice, uno strumento che le medievali sentinelle non credo possano conoscere, magari loro conoscono l’abaco, boh) fa 12.200 (dodicimiladuecento D O D I C I M I L A D U E C E N T O) persone. 
Sentinelle in piedi (arrotondando per eccesso): 12.200
12.200 < 1.000.000 (popolazione omosessuale secondo l’ultimo censimento dell’Istat)
12.200 < 59.830.000 (popolazione italiana)
Le Sentinelle in piedi sono un numero esiguo di persone rispetto alla comunità omosessuale e alla popolazione italiana. Le Sentinelle in piedi, dunque, più che un attacco e una decisa opposizione alla comunità LGBT, sono la dimostrazione palese che l’Italia è prontissima a una legge sull’omotransfobia, a una legge sul matrimonio omosessuale e a una legge sulle adozioni a coppie omosessuali. Grazie, Sentinelle in piedi, era da diverso tempo che non nutrivo più fiducia nel mio Paese.

La mia personale e discutibile opinione su Muholland Drive e in generale quella roba artistica un po’ strana lì

L’obbligatoria premessa è che quella che state per leggere è, come da titolo, un’opinione personale e discutibile. Non mi aspetto di avere ragione, non mi aspetto di non potermi ricredere in futuro. Anzi, sono pronto alla discussione franca e aperta. Probabilmente la mia idea è superficiale e istintiva o, come direbbe Simona Ventura, di pancia. Non sono un cinefilo, un cinofilo o un cinafilo. Sono uno che guarda film. Metto lo zucchero nel caffè, non indosso coppole, non vesto total black e le occhiaie non sono l’accessorio fondante del mio look per quanto mio malgrado ne sia usualmente provvisto, tanto che nella comunità dei panda sono considerato molto sexy.
La prima impressione dopo aver visto Muholland Drive (David Lynch, 2001) è stata: e adesso chi me li restituisce i 147 (centoquarantasette) minuti di vita spesi per questo film?
Nessuno, ovviamente. Li devo recuperare sottraendo tempo ad altre attività indispensabili quali parlare con i miei pupazzi e fantasticare su come si comporterebbero i miei amici se fossero posseduti, che comunque è un po’ lo scheletro narrativo di Twin Peaks.
In realtà, ripensandoci a freddo, la visione di Muholland Drive, ieri, al Lucca Film Festival, introdotta nientepopodimeno che dal maestro Lynch in persona, che è molto simpatico e contrariamente alle aspettative riesce a parlare anche di argomenti che non siano la morte e il sovrannaturale, dicevo che non è stato totalmente tempo perso. Non parlo solo di un punto di vista registico (che glie voi di’ a come impugna lui la macchina da presa, è un genio), ma anche dal punto di vista emotivo, o, come chiamano i più recenti manuali di psicologia, il punto di vista D’Urso
Muholland Drive mi ha fatto una paura allucinante, molto più di qualsiasi horror o definito tale. Avevo un’angoscia dentro che mi ha costretto a percorrere il vialetto di casa tremando e sperando che dietro l’angolo non sbucasse un mostro o un violento assassino o Carmen Di Pietro. Questo fatto che ti pisci addosso dal terrore è senz’altro un aspetto positivo di un’opera.
È bello avere paura, ogni tanto. 
Tuttavia, io sono uno di quei fruitori che preferiscono un tipo di arte rassicurante e benefica. Sono talmente ansiogeno e insicuro di mio che alimentare la mia angoscia con questo tipo di prodotto non è esattamente salutare. Voglio essere coccolato e stupito, non sconvolto. Voglio uscirne bene. Di solito, non sempre. Lo ripeto, è bello avere paura ogni tanto; essere scossi, precipitare giù, respirare la fine con addosso un senso di indefinito, non capire.
Non solo: sono anche uno di quegli spettatori all’antica, ho bisogno di una trama per poter apprezzare un’opera. Forse sono limitato, ma un film dove conta di più la sensazione che la storia non mi è sufficiente. Mi lascia il sospetto di essere preso per il culo. È come fare una conversazione con un africano che ti parla in swahili e pretende che tu capisca. Peggio di interloquire con Aida Yespica. Io non lo capisco lo swahili, e nemmeno Aida Yespica.
Mi dispiace, ma sfido chiunque a guardare Muholland Drive e capire tutto al primo tentativo. È come guardare certi quadri: ti arrivano i colori, le linee, le forme, e dunque tante sensazioni, ma senti che c’è qualcosa dietro che non puoi comprendere, e non puoi squarciare la tela per trovarlo. Ecco, io da un film, da un libro, da un racconto, di solito, mi aspetto di più. Altrimenti mi guardo un quadro, auspicabilmente per meno tempo di centoquarantasette minuti.