La magia del Natale (la sentono anche le persone sole)

Il mio psicanalista immaginario sostiene che le persone sarebbero più felici di attendere il Natale se fossero già felici per conto loro. Recentemente mi ha detto che la magia del Natale è come moltiplicare per trentaquattro: se tu sei 100, fa 3400. Se sei zero, fa zero.

Se sei Tredici, fa – prendo la calcolatrice, scusate – fa 442, che effettivamente non è male, poteva andarmi peggio, e questo 442 è formato da famiglia, amici e vivere in un Paese dove non c’è la guerra (anche se, be’, c’è Forza Italia da vent’anni). Tutte cose bellissime, ovviamente, ma spesso arrivo al 25 Dicembre con un unico, piccolo rimpianto: quello di non poter cantare il vero simbolo del Natale, quello che rende questa festa realmente unica e speciale, e cioè non Gesù bensì Mariah Carey. Perché il Natale non è un alberello illuminato, non è consumismo, non è la natività, non è che tutti sono più buoni: il Natale è All I want for Christmas is you.

Ho deciso che avere questo rimpianto è inutile. Posseggo un sacco di complementi oggetti da sostituire allo you finale della canzone. Anch’io voglio godermi le cose belle di questa festa: i sorrisi, i regali, le cene, gli addobbi, le luci, e pure le canzoni di Mariah Carey. Perché la magia del Natale la sentono anche le persone sole.

All I want for Christmas is you, pandoro riscaldato nel forno.

All I want for Christmas is you, spot di Andrew Cristian con tanta gente mezza nuda.

All I want for Christmas is you, canzone natalizia dei Killers.

All I want for Christmas is you, saldi.

All I want for Christmas is you, diagnosi di raffreddore cronico per Alessandra Amoroso.

All I want for Christmas is you, Negroni sbagliato ma fatto come si deve.

All I want for Christmas is you, ritorni.

[…in aggiornamento]

E comunque ieri ero in cucina. In casa c’eravamo solo io e mia sorella. Quando torno in camera, getto un’occhiata veloce sul letto. Proprio sopra una pila di vestiti che terminavano con un paio di boxer della Coca Cola (me li hanno regalati, giuro) stava posato un Bacio Perugina. Mia sorella giura che non ce l’ha messo lei, e tendo a crederle, visto che conoscendola so che se lo sarebbe mangiato, ma allora… chi è stato? Babbo Natale esiste, e mi vuole bene.

Archetipi di maschio in chiave pop

Comunque: che titoli di merda che invento.
Una mia amica mi ha passato un file in cui si analizzano scientificamente le varie tipologie di uomo fidanzato. Poiché sono single dai tempi del Crystal Ball, ha pensato bene che lo potessi trovare interessante. E in effetti è andata così, dato che sono qui a scriverne. Il prezioso documento suddivide l’essere umano in tre tipologie, basandosi su dei modelli psicologici di Freud e di Bowlby, e non ho idea di quanta attendibilità abbia ma di certo non è peggio dei test di Focus. 
La teoria descrive i tre profili riferendosi a personaggi del teatro shakespeariano e della lirica, ma siccome questo è un blog sui minimi sistemi analizzeremo gli stessi archetipi secondo il pensiero illuminato di alcune popstar.

Archetipo #1
Otello
Otello è ossessionato da voi. È possessivo, geloso e ama stare al centro dell’attenzione, ma non in generale, no: lui brama la vostra attenzione, e riesce a diventare molto fastidioso per ottenerla. Vi chiama in continuazione, vi chiede dove siete stati e perché non avete risposto ai suoi venticinque messaggini nonostante whatsapp indicasse chiaramente che li avevate ricevuti (“guarda, ci sono i due segnetti!”). Lady Gaga in questi casi opta per una soluzione drastica ma non biasimabile: chiama la sua amichetta Beyoncé che la fa evadere dalla prigione in cui era costretta, e insieme vanno a ballare, preoccupandosi di spegnere i telefoni.
Archetipo #2
Don Giovanni
Al Don Giovanni, di voi, non importa una beata minchia, e scusate se sono brutale. Magari devo addolcire il concetto: lui in fondo in fondo vi vuole bene, così come si vuole bene a una bella bistecca. Il Don Giovanni cercherà di ingannarvi in tutti i modi, in tutti i luoghi, in tutti i laghi. Carissimi lettori e carissime lettrici, bisogna che ci mettiamo in testa che questi personaggi malvagi esistono – ne è prova praticamente tutta la filmografia di Julia Roberts – e noi li dobbiamo combattere. Potremmo prendere spunto da Britney Spears, per esempio.

Archetipo #3
Rodolfo

Rodolfo è una figura confusa. Ha bisogno di voi, okay, però ha bisogno anche della propria indipendenza. Capite bene che è facilmente detestabile. Il punto è che questa ambiguità non si manifesta in modo deciso, anzi. Rodolfo si avvicina ma poi si ritrae, prima vuole solo voi poi sembra non importargliene più niente, è caldo ma è anche freddo, è nero ma è anche bianco, sta bene ma sta male, guarda Santoro ma anche X Factor, e Katy Perry lo accoglie in Chiesa agitando la mazza da baseball.

La conclusione è che il principe azzurro non esiste, ma non è nemmeno semplice accorgersene: quando ci sei dentro, non riesci a partire per sgozzare tutti come fa Gaga, o tessere piani diabolici per smascherare le tresche di lui come Britney, o mettersi a ballare inutili coreografie come Katy (capitela, poverina, è un po’ tonta), ma d’altronde sono meravigliosissimi cazzi vostri, dato che io sono single, e lo so che questa è la ventiquattresima volta che lo ripeto nel giro di undici righe ma metti caso mi stia leggendo un maschio carino, interessante, amante del sapone e che non abbia scelto Bulbasaur alla prima giocata.

La controcorrenza*

* questa parola potrebbe non esistere.
Buonasera a tutti. 
Vorrei formulare un rapido ragionamento. Partiamo da un assunto che prima o poi dovremo ammettere tutti quanti, e ci conviene farlo prima che Selvaggia Lucarelli lo spacci per un’idea sua, e cioè: il web è costellato da brillantoni che provano una sorta di sadico piacere nell’essere controtendenti. Ora, non c’è niente di male nell’esserlo, a patto che non sia una cosa forzata, che sa un po’ di ridicolo. Questo avviene specialmente su Twitter, che è un social network dove non ha molto senso esistere se non si enucleano pensieri controcorrenti, ma questa piaga ormai coinvolge più o meno l’intera rete. 
Il motivo, forse, è che si tratta di una modalità abbastanza semplice per emergere: è sufficiente essere dotati di un certo quantitativo di originalità. Qui ci vorrebbe una sagace battutina, ma sto ascoltando i Meat Loaf e ho l’ansia, e quindi il mio potenziale comico si riduce. Cercate di seguirmi lo stesso. 
Bene. Ho avuto modo di analizzare le varie modalità con cui viene declinato questo essere controcorrenti per forza, e posso dire con una certa sicurezza che esse sono, in sostanza, due.
1) la controcorrenza à la Beautiful
È la controcorrenza potenzialmente infinita. Si parte da un concetto (che spesso è un fenomeno naturale, come la neve o un terremoto), e lo si nega. Poi lo si può nuovamente negare. E nessuno ci impedisce di negarlo di nuovo, creando una catena di battute e repliche che potrebbe non finire mai. È abbastanza intuitivo che sia ridicolo.
2) la controcorrenza in stile viene prima l’uovo o la gallina
È la controcorrenza ciclica. A differenza di quanto avviene con la prima tipologia, a un certo punto si deve arrestare in quanto converge su sé stessa. Anche qui partiamo da un concetto, che viene prontamente negato dal desideroso-di-diversità di turno. Non appena lo si nega, si ritorna al concetto iniziale, che tuttavia è troppo mainstream per essere accettato da uno che fa dell’originalità l’unica via di emersione. Il fallimento della strategia è abbastanza ovvio: se sei troppo hipster torni mainstream.

Drammatici parallelismi tra me, Cechov e Geri Halliwell

Quando gli altri credono in te più di quanto faccia tu stesso, c’è un problema.
Mi sono trasferito a Torino con la consapevolezza che avrei affrontato un mondo completamente nuovo. Non solo perché avrei dovuto imparare a cucinare, pulire casa, trovare il tempo per fare la spesa, lavare, stirare e capire che stirare non serve a niente, ma anche perché sarei stato “sconvolto dentro” (cit. Simona Ventura).
La prima cosa che mi ha destabilizzato è che qui nessuno sa come si usa il piuttosto che. Sono cose che ti feriscono, ragazzi. E con che convinzione lo mettono un po’ ovunque, come per ribadire che sì, sono nordici fieri di essere famosi per i leghisti, Mediaset e l’uso scorretto del piuttosto che. L’altra cosa che mi ha buttato giù è che qui hanno tutti qualcosa in più di me, e lo dico senza voler fare la vittima o che so io. Non che a Lucca non ci fosse gente in gamba, anzi. Però qui lo noto. Qui mi pesa.
Capite bene come tutto questo mi abbia dato numerosissimi spunti per annegare in nuovi bacini di malessere. A un certo punto, preso da un impeto di inconsueto pragmatismo, ho addirittura pensato di usare questa mia presunta inferiorità come stimolo per migliorare: che illuso. Non sono abbastanza sicuro di me per concretizzare una conclusione così intelligente. Non credo a sufficienza in quello che posso fare.

Poi ho pensato ad Anton Cechov. Quel poveruomo di Cechov, nel corso della sua esistenza, è stato preso a cinghiate da un padre bigotto e violento, ha contratto la tubercolosi, è stato criticato per svariate sue opere, ha trovato moglie molto tardi, è stato tradito dalla sopracitata moglie, è morto a quarantaquattro anni in preda ai deliri e chissà quante altre cose tragiche ha subito. Eppure ha continuato a scrivere senza lasciare che OH MA CHE PALLE QUESTA ANALOGIA È NOIOSISSIMA.
Poi ho pensato a Geri Halliwell. Ecco, meglio. Geri Halliwell è la mia preferita tra le Spice, tanto che qui lo dico e qui lo nego spesso nelle mie fantasie più recondite e virili sogno di interpretarla e inizio a lavorare come cantante in una cover band delle Spice Girls vi prego proponetemelo che accetto subito avremo anche i vestitini come loro con la bandiera inglese è geniale il mondo aspetta noi facciamolo. Ma torniamo alla metafora: dopo che il gruppo si è sciolto, Geri ha tentato più volte la carriera da solista. I risultati non sono stati soddisfacenti, all’inizio. Okay, i gay la adoravano, e probabilmente Aldo Busi la citò in una prefazione di qualche libro, ma le persone sane la prendevano in giro e le vendite andavano male. Lei mica si arrese, no, anche perché aveva bisogno di soldi per pagare le performance sessuali di tutti quei manzi – che poi compaiono nei suoi video perché prometteva loro fama in cambio di curiose acrobazie erotiche. Geri non rinunciò ai suoi sogni, per quanto il mondo musicale attorno a lei la stesse schiacciando. E vinse. E ora è il mio mito anni 90.

Geri è sicura di sé
Geri crede in sé stessa
Quando ho l’impressione di non valere più di un’unghia tutta caccolosa che ha appena scavato in un orecchio bello denso di cerume, io penso a Geri Halliwell, che è l’esempio vivente che non credere in sé stessi è una cazzata.

Lettera aperta a Zucchero Sintattico

Ciao blog.
Ho deciso di scriverti perché non l’ho mai fatto. In cinque anni che esisti, non ti ho mai parlato direttamente, e credo che questo sia dovuto al fatto che un certo quantitativo di sanità mentale sono riuscito a mantenerlo; ma ormai sono partito, svitato, svanito, completamente esaurito, e pertanto posso permettermi di scriverti, anche se in realtà tu sei la parte virtuale di me, nel senso che io in questo momento sto scrivendo a un’entità non pensante, ma cambiamo argomento che è un attimo poi che mi internano e senza dirmelo comprano da mia madre i diritti per fare un film su di me, una di quelle cose tristi che mandano su Rai 5 in seconda serata.
Caro blog, prima di scriverti mi sono riletto qualche post di questi cinque anni. È buffo, perché ci si accorge bene di quanto sia cambiato. Be’, ovviamente adesso scrivo un pochino meglio, e ho imparato anche a dosare le parole in modo da filtrare solo le sensazioni che voglio pubblicare. In pratica, tu non sei proprio proprio me, così come i miei altri profili virtuali non sono proprio proprio me. Non credo che sia un grande vantaggio, in realtà, perché poi le persone iniziano a fare confusione tra te e me, leggono te e credono di conoscere me, con la conseguenza che per far conoscere me (e non solo te) devo faticare un po’ di più. Ma preferisco così, perché odio spiattellare su internet quello che provo. Quello che penso, ecco, quella è un’altra cosa. Anche perché di solito penso scemenze. Se c’è una cosa di cui ho il coraggio, è della mia demenza. Tutti dovrebbero avere il coraggio della propria demenza.
Nell’ultimo anno, poi, direi che sei stato fondamentale. Certo, mi aspettavo che mi assumessero nello studio grafico quando ho detto loro di te, ma tra tutti i post che potevano leggere, sono andati a finire proprio su quello con le mie conversazioni su Grindr. Sei stato importante per un sacco di cose, in quest’ultimo anno, e tra quelle che voglio dire ci sono sicuramente i Macchianera Italian Awards. Siamo arrivati quinti, che è una posizione oltre ogni aspettativa. Ho quasi rischiato di montarmi la testa, ma sono realmente troppo sfigato per farlo. Questa cosa della sfiga, alla fine, è una fortuna.
Ho la vaga percezione che questa lettera faccia sfrantecare le palle da quanto è noiosa. Per ravvivarla ci sono due strategie: la prima è quella di inserire qualche cazzo di fottuta espressione colorita, cazzo, e la seconda è quella di concludere. Volevo concludere ringraziando i tuoi lettori: quelli di ora, che sono tanti, adorabili, cattivelli, sapientini, riservati; e quelli che se ne sono andati, perché non gli piaccio più o perché hanno di meglio da fare o perché è finita o perché ora mi odiano o perché io li amo; e poi quelli che ci sono sempre stati, silenziosamente o meno, perché sono un po’ la famiglia di Zucchero Sintattico, che è una bella famiglia. Se sei riuscito a farli sorridere anche solo mezza volta, o a farli pensare/emozionare/distrarre in qualche modo, se tu sei riuscito a fare questo, allora io sono soddisfatto.
Tanti auguri, Zucchero Sintattico. Cinque anni di scemenze. Tra parentesi.

Sulla riva del fiume Po mi sono seduto e no dai, non ho pianto, non facciamola così melodrammatica

Mi sveglio e c’è il sole. Uououo, penso, perché sì, io so pensare anche le onomatopee tipo uououo o gulp o snort o squaraquack. Non credo che le persone normali lo facciano, perché non credo che le persone normali abbiano il cervello che sembra una striscia di Topolino. Comunque c’è il sole, ed è una vera novità qua a Torino, dopo una settimana in cui la temperatura era simil-artica e ha piovuto, nevicato e fatto un vento assurdo. Potrebbe andare peggio – penso quando voglio consolarmi – potrebbe uscire un nuovo singolo di Eros Ramazzotti. C’è il sole, e decido di sfruttarlo andando a leggere all’aperto. Ora, leggere in riva al fiume è una cosa proprio pittoreschissima, siamo d’accordo, ma c’è da considerare che a Novembre a Torino fa un freddo cane, anche se c’è il sole. Quindi sto soffrendo. Sono rannicchiato su uno scalino, ho un berretto da povero e circondato dall’odore di piscio. In una scala da 1 a concorrente di Masterpiece, mi sento piuttosto penoso. Leggo ed è buffo perché mi sembra di essere il giovane Holden, nel senso che il livello di seghe mentali che si fa lui raggiunge quasi il mio. Mi chiedo se Salinger sia stato così paranoico quanto il suo personaggio. Perché secondo me no, anche se secondo me bisogna essere geniali per creare un personaggio diverso da come si è, ma Salinger ci riesce benissimo a pensare un essere pensante che pensa come penso io. Mi distraggo perché passano due signore che conversano sulla nightlife torinese. Usano proprio questa parola, nightlife. Ora, quando una persona mette una parola inglese in un discorso io ci rimango secco. Non mi riferisco alle parole tipo jeans o footing. E poi è vero che ci sono parole che in inglese hanno sfumature diverse dalla traduzione letterale italiana. E mica ho nostalgia del fascismo, quando i computer si chiamavano “calcolatori” e i boy scout “giovani esploratori”, ma ci sono casi in cui ci si riempie la bocca di inglesismi che a me fanno venire il nervoso. Tipo “domani devo tenere uno speech” o “ti va sex?” (quest’ultimo me l’hanno solo raccontato eh). Le signore sono ormai passate, e io sono soltanto un accidentale ascoltatore che si è innervosito per i loro discorsi. A un tratto mi sento insopportabile: non ci si può innervosire per queste cose. Poi per forza sono solo: mi riempio di convinzioni inutili che allontanano gli altri. Rifletto sulle mie reazioni alle cose, e mi trovo esagerato. All’improvviso, mi sembra che tutto quello che ho sempre pensato fosse sfiga o banale incomprensione degli altri, sia invece la naturale conseguenza del mio comportamento. Chi è sveglio intuisce subito che è meglio starmi alla larga, chi è buono mi dà una possibilità e poi se ne va. La colpa non è mai di quelle stronzate come la distanza, o la sintonia, o il momento sbagliato, la colpa è sempre nostra. Guardo il Po e non ho voglia di trovare aggettivi per un fiume ma il fatto è che fanno bene, tutti, a scorrere via. Mi ricordo di quando un tipo mi ha detto che fanno dei corsi per educare il proprio atteggiamento a essere più gradevole o qualcosa del genere, me lo ricordo perché mi consigliò di andarci ed era sincero e perché io gli risposi che purtroppo per lui non c’erano corsi per essere meno stronzi. La verità è che io mi piaccio così. Sta iniziando a fare freddino, mi alzo. Dovrei scrivere un post su tutta questa roba, poi però la gente pensa cose. Magari ci metto una canzone finale, una di quelle canzoni che infondono l’umore giusto. Dovrei dargli un titolo con dei riferimenti letterari ma al contempo devo renderlo un po’ comico-trash. Magari cito Coelho.

You may be right: I may be crazy
but it just may be a lunatic you’re looking for
Turn out the light, don’t try to save me
You may be wrong for all I know but you may be right

Il treno che passa da Magenta

Venerdì mattina ho preso il treno perché dovevo andare a Milano. Sapete, Milano, la città dove tutto è frenetico e la gente ti passa davanti anche sulle scale mobili di Bershka. Giuro che quando è successo ho iniziato a balbettare guardandomi intorno spaesato. “RILASSATEVI” gridavo malamente a cittadini casuali, quando mi sono ripreso. Ad ogni modo, per arrivare a Milano da Torino ho preso un Regionale Veloce (veloce, vabbè) che passa da Magenta.
Ora, alzi la mano chi sa che in Italia esiste Magenta: tutti ovviamente, ma non perché ci siete stati o perché sia una città particolarmente famosa, no. Vi ricordate di Magenta intanto perché ha il nome di un colore, ma soprattutto per la canzoncina dell’asilo celebre per il fantasioso uso di articoli determinativi e connettivi logici. “Era una sera battaglia di Magenta oh che piacere giocare ai cavalieri”. Siccome siamo fortunati e siccome Internet è uno strumento potenzialmente terrificante, c’è una simpatica ragazza che si è premurata di farne una performance su YouTube che vi raccomando:

Il consiglio è di guardarla quando non avete i vostri 
coinquilini in casa.  Potrebbe sembrargli strano, capite.
Ho passato tutto il viaggio in treno fino a Magenta un po’ preoccupato. La mia scuola è divisa in sei classi, e io sono finito in quella dove ho il timore che la cultura personale sia molto importante. Questa è ovviamente una cosa positiva, ma il fatto è che io sono -e lo dico vergognandomene- ignorante. Non leggo molto. Certo, potrei stare mezza giornata a esporvi la filosofia che c’è dietro all’ultimo album di Marina and the Diamonds, ma questa non è cultura classica.

Sono immerso in questi pensieri quando mi accorgo di essere arrivato a Magenta. Alzo la testa e mi guardo intorno. Davanti a me c’è una famiglia di sordomuti in piena crisi. Ti accorgi quando dei sordomuti stanno litigando perché stanno zitti, ma smanaccano convulsamente e hanno la faccia tutta contrariata. È un po’ come guardare Dragonball senza audio.

Alla mia destra c’è una vecchietta con un paio di fantastici stivali da pioggia e nessun dente. Accanto a lei un signore di quarant’anni che legge Geronimo Stilton e il galeone dei gatti pirati. No vabbè è il treno del disagio. Poi per forza uno è sfigato, me la passate per osmosi.

Riflettendoci meglio, ho capito che quel tipo, quello che legge Geronimo Stilton è un grande. Guardandolo, ho intuito che probabilmente è straniero. Magari non è più nel suo Paese e deve imparare una nuova lingua, e lo fa iniziando dai libri per bambini. O magari vuole insegnare a leggere al figlio, e prima di farlo deve fare esercizio. Quel tipo che legge Geronimo Stilton è un grande perché ci vuole tanta forza di volontà per migliorare. Più che il talento, più che l’intelligenza. Non ha perso tempo a pensare che non sa l’italiano: sta cercando di impararlo e basta.

La conclusione – esplicitata in perfetto stile Disney, non è che vi considero cretini, è che ho bisogno di metterla nero su bianco – è che una volta che ho preso atto della mia scarsa cultura, devo cercare di digievolvermi dallo stadio di capra e recuperare le tappe che mi mancano. I francesi hanno un’espressione che rende tantissimo, che è farsi il culo.

Così, apro lo zaino e tiro fuori Salinger e inizio a leggere.

Trenitalia, non scusarti per il disagio

Nove novembre. Ore otto di sabato sera. Stazione di Genova Piazza Principe. Sto per tornare a casa, quindi sostanzialmente sono contento. È Novembre, la città si spegne in un istante tu dicevi basta io restavo inerme eccetera eccetera ma soprattutto fa freddo e sono alla mercé delle intemperie. 
Ora, la voce di una psicolabile che per 45 minuti di gelo si è solamente premurata di ricordarmi che è assolutamente vietato attraversare i binari, manco fossimo tutti dementi, ha annunciato un nuovo concetto: il mio treno è in ritardo di trenta minuti. [ Nda: sarebbero poi diventati 35, le porte del mio vagone sarebbero state rotte quindi avrei perso la mia fermata ]
Va bene, penso, sto tornando a casa dopo un mese e mezzo e non ci sto a farmi rovinare l’umore da Trenitalia. Poi la voce aggiunge: “ci scusiamo per il disagio”.
Ci scusiamo per il disagio.
Dai, giochiamo ad analizzare questa frase. Rileggiamola attentamente. Ripetiamola nella mente cercando di soppesare ogni parola. 
Ci scusiamo per il disagio.
Carissima Trenitalia, ho un dubbio: di preciso, chi è che si sta scusando? La voce che annuncia il ritardo appartiene a una signorina che ha il compito ingrato di rappresentarvi. Lei si prende tutti gli improperi che le mandiamo – io stesso ho appena espresso il mio disappunto chiamandola sudicia deprecabile troia – ma tecnicamente non è la sola colpevole, nonostante presti la sua voce al sistema quindi un po’ di accidenti se li merita comunque.
Tuttavia, non posso fare a meno di interrogarmi su chi sia quel “noi” che si scusa per il disagio. Mi vengono in mente due opzioni che non si autoescludono:
1) a scusarsi per il disagio è tutto lo staff di Trenitalia, cioè i dipendenti, i macchinisti, i tecnici, i capistazione, i capitreno, i capidiqualcosa, i controllori, gli impiegati, e insomma avete capito. Sì, perché è troppo facile pensare che loro non c’entrino niente. Non è giusto prendersela solo con l’alta amministrazione, perché anche loro contribuiscono a rendere orribile il loro servizio. Non solo con la loro eventuale incompetenza, ma anche per l’arroganza con cui a volte (spesso, nel mio caso) si rivolgono ai clienti paganti. 
2) a scusarsi per il disagio sono le alte sfere di Trenitalia, cioè in pratica il consiglio di amministrazione. Ora, non vorrei passare da grillino, però mi piacerebbe fare un gioco simpatico che chiameremo “FUORI I NOMI”. E i nomi del cda di Trenitalia sono questi: Vincenzo Soprano, Domenico Braccialarghe, Enrico Moscati, Francesco Rossi, tenuti insieme dal presidente Marco Zanichelli (che essendo stato l’amministratore delegato numero uno di Alitalia quando Alitalia è fallita hanno pensato bene di metterlo a capo di Trenitalia).
Il punto a cui voglio arrivare è questo: che è troppo facile scusarsi per il disagio nascondendosi dietro la voce di una ragazza probabilmente sottopagata. No. È bene che tutti sappiano che a scusarsi per il disagio è il signor Marco Zanichelli.
È al signor Marco Zanichelli che dobbiamo dire che noi le sue cazzo di scuse non le accettiamo. Che noi abbiamo pagato un biglietto che non ci verrà rimborsato, quindi le sue scuse non le accettiamo. Che noi abbiamo degli impegni, delle cose da fare a casa, delle persone da incontrare, un lavoro domani, e che ci rode altamente il culo se perdiamo anche solo cinque minuti per il suo cazzo di ritardo. Che noi compriamo un servizio, e tra l’altro siamo già consapevoli che quello che avremo pagando un prezzo spropositato non sarà all’altezza degli standard di un popolo civilizzato. Che noi siamo stufi di pagare per viaggiare su treni sporchi, pieni di gente, caldi quando fa caldo e freddi quando fa freddo, dove talvolta non funzionano le luci, pericolosi, dove anche quando ci sono le prese elettriche non funzionano.
E soprattutto, signor Marco Zanichelli, ne abbiamo pieni i coglioni di sentirci presi per il culo con il suo “ci scusiamo per il disagio”. Senta, signor Marco Zanichelli, e sentite, biasimevoli pezzi di merda di Trenitalia, vi do un consiglio: non scusatevi per il disagio. Fateci un piacere, siate sinceri. Noi apprezziamo la verità. Dite così, piuttosto:
Si annuncia ai gentilissimi e pazienti passeggeri che il loro treno subirà un ritardo di tot minuti. Siamo perfettamente consapevoli che così facendo vi roviniamo i piani della giornata, ma siamo totalmente disorganizzati e troppo stronzi per sistemare i guasti sulle nostre linee e sulle nostre vetture di merda. Lo sappiamo, ma ci piace prendervi per il culo. Tanto non potete rinunciare a noi, finché non aumenterà la concorrenza. Siete in mano nostra, e quindi a noi non ce ne sbatte una fottutissima sega di voi. Buon viaggio.

Tredici Horror Story

Halloween è quella festa straordinaria che assolve due funzioni: innanzitutto rimanda al primo Novembre il quesito su dove passare il Capodanno, visto che da Ferragosto in poi il quesito riguarda il dove passare Halloween; e poi permette di fare un po’ di polemica ai poveri preti che altrimenti mai si sognerebbero di tentare un’influenza invasiva nella vita delle persone.
Come per le serie televisive americane, ho deciso che anch’io quest’anno farò la puntata di Halloween, qui sul mio blog. Infatti avevo in mente una delle mie odiose robe melodrammatiche e spaccacuore ti ho detto di mirare spara spara spara amore su non pensarci più che cosa vuoi aspettare spara spara spara amore. Volevo fare un sagace parallelismo tra i mostri di questa festa e i metaforici fantasmi della vita vera: mai come questo anno ho capito che “gli spettri abitano dimore gotiche, come succede in Edgar Allan Poe, ma quelli che fanno più paura sono qui a ricordare il tempo agli uomini” e che i fantasmi “ci puoi morire se li lasci fare” e un sacco di altre cose deprimenti stile musical di Cocciante.
Questo era l’obiettivo, dunque, se non che torno a casa dopo aver visto La vita di Adele (quindi ero partito per il cinema due giorni prima, portandomi dietro qualche cambio e una scorta di viveri) e mi metto a fare quello che faccio sempre –  uno si impegna per cambiare vita, ma certe cose le senti dentro, nelle ossa, nelle vene, non ci potrai mai rinunciare, perché quelle cose fanno parte di te – e cioè mangiare biscotti. Sì, ognuno si sente qualcosa nelle vene. Io c’ho i carboidrati.
Tutto ad un tratto sento un rumore fortissimo, che sembrava provenire dal bagno. 
VRRRRRRRRRRRRRRRRR, tipo. 
Poi SBAM, SBAM, SBADABAM, dei tonfi preoccupanti. 
Diciamo che mi inquieto. Una gocciola tarocca della Lidl mi rimane conficcata nell’epiglottide, qualsiasi cosa sia l’epiglottide. Siccome è Halloween, mi sento legittimato a fare cose estremamente coraggiose e mi avvicino al bagno. Per darmi forza canticchio Amami Alfredo tra me e me. Apro la porta. La scena che mi si para davanti è sconcertante: la lavatrice, che solitamente sta in un angolo, era nel mezzo della stanza, circondata da flaconi di detersivi che solitamente stanno sopra di essa. Per farvela breve, la mia lavatrice è viva e non si limita a mangiare calzini come fanno tutte le lavatrici vive normali tra cui quella di Capossela, no: la mia si muove e crea scompiglio, diventando a tutti gli effetti una creatura mostruosa di gran lunga più terrificante dei vampiri. 
Buon Halloween a tutti, specialmente ai testimoni di Geova.