Il Giocondo

– Parigi duemilaTredici –
#4
La piramide di vetro del Louvre in mezzo a tutti questi palazzi è anacronistica. 
Hai sentito che parola ho usato, Ale? ‘Anacronistica’!
Lo sguardo soddisfatto di Ciuffo dopo aver fatto sfoggio delle sue trovate lessicali è straordinario. Io e il mio amico (così apostrofato per via dei suoi capelli che gli stilizzano un’ondina sulla testa) abbiamo scelto il terzo giorno per la visita al Museo – e anche ad una caterva di altre cose che non avranno spazio in questi post su Parigi.

Nel Louvre ci sono così tante cose da vedere che quelle interessanti perdono quasi valore, in tutta quella marea di possibilità. Per esempio, davanti alla Gioconda c’era così tanta gente che a me ha interessato fotografare tutta quella calca di umanità davanti a un quadro più che il quadro stesso, che tanto abbiamo già visto tutti sui libri e in diversi spot della Tim
La Venere di Milo sarebbe la statua di Afrodite che cerca di fare qualcosa, ma non sappiamo cosa in quanto non ha più nessuna delle braccia: così sembra che sia lì, in posa, a farsi guardare, ed è effettivamente bellissima. La dimostrazione del fatto che a volte le cose bellissime rimangono bellissime anche quando si rompono, e non dobbiamo cambiare idea sulla loro bellezza solo perché si rompono. Ma non lo so se mi sono spiegato.
Forse è meglio raccontare del giorno dopo, quando siamo andati a vedere l’Arco di Trionfo fatto costruire da Napoleone, e forse è carino dire che abbiamo girottolato attorno all’Arco. Cantando Waterloo.

Tutti quanti voglion far gli snob

– Parigi duemilaTredici –
#3
I parigini sono creature strane. Sono sommersi da pregiudizi negativi, come il fatto che sono antipatici, e snob, e non sanno l’inglese, e ti guardano schifati, e non hanno nessun rispetto per chi non sia parigino, e dopo cinque giorni posso confermare che questi pregiudizi sono tutti veri. O almeno: questa è la mia esperienza, poi non dubito che esista un qualche parigino educato. Magari emigrato. Forse la sessantenne vestita da baldracca rumena che è entrata nel supermercato in monopattino, per esempio, è invece una parigina educata.
La cosa buffa che ho notato è che i francesi criticano gli italiani per la nostra pressappochezza, il nostro essere caciaroni e disordinati, quando mi è sembrato che loro incarnino lo stesso nostro stereotipo, solo che in modo più snob. Non si fermano alle strisce pedonali, come noi, parlano a voce sguaiata, come noi, non sanno l’inglese, come noi, e sputano per terra. E noi non sputiamo per terra, Dio Santo. 
Però si danno un gran da fare per costruirsi l’immagine di persone snob. Ora, io questa cosa di voler essere snob per forza non l’ho mai capita. È vero che io non faccio testo: ho sempre trovato molto più attraenti la timidezza e l’imbranataggine, ma forse perché ho palesi devianze a livello inconscio. Ad ogni modo, è inutile cercare di essere la Kidman quando dentro sei la quarta sorella Kardashian.

Per esempio, una sera io e Ciuffo (il mio compagno di viaggio, quello che ha la testa a forma di Gocciola Pavesi) siamo andati a cena fuori e, non sapendo una parola di francese a parte forse burlesque e per questo dobbiamo ringraziare Cher, sempre sia lodata ora e nei secoli, abbiamo ordinato ciò che ci ispirava di più rustico e parigino, e cioè una concassé e una terrine campagnarde. Bene: ci hanno portato tonno, pomodori e biroldo.
La terza sera abbiamo girato qualche locale nel Marais. E abbiamo notato che i francesi non ballano: io e Ciuffo eravamo gli unici due dementi che si agitavano, vi lascio immaginare il grazioso quadretto. Per forza, erano tutti su Grindr, perché adesso non usa più il baccaglio dal vivo, ora c’è Grindr. E io mi sono ricordato di quando, mesi fa, un mio amico ubriaco mi disse di non cercare l’amore in disco: “cercalo su Grindr”. I francesi lo cercano su Grindr, ma in disco. Comunque, forse i parigini non ballano non tanto perché sono snob, quanto per la musica inascoltabile che mettono: avrebbero bisogno di riscoprire un po’ di trash, qualcosa tipo Moi lolita, o al limite anche… non so, questa:

Io rimango del parere che probabilmente la sessantenne vestita da baldracca rumena che è entrata nel supermercato in monopattino avrebbe ballato. 

Post su Parigi duemilaTredici
     #1 Minuit à Paris
     #2 Liberté, egalité, fraternité

Liberté, egalité, fraternité

– Parigi duemilaTredici –
#2
Non so se sapete che in Francia è in fase di approvazione la legge sul matrimonio per tutti, che regola le unioni tra persone anche dello stesso sesso. Si tratta di un riconoscimento di importanza enorme per la comunità gay, e per una Nazione il cui motto è Liberté, egalité, fraternité era anche l’oretta di una legge del genere.
Durante il secondo giorno del nostro viaggio a Parigi, esattamente giovedì scorso, ci siamo imbattuti casualmente nella protesta dei contestatori a questa legge. Eravamo davanti ai Giardini di Luxembourg, dopo un lunghissimo giro distruttivo per i nostri piedi. Precisamente non so spiegarvi come mai, ma a molti francesi non sta bene che anche gli altri abbiano i loro stessi diritti (non più né meno: gli stessi). 
Né io né il mio compagno di viaggio Ciuffo (sì, esatto, quello con la testa che sembra un mezzo capitello ionico) sapevamo ancora che due giorni dopo, Sabato 6 Aprile, l’odio che quei contestatori dimostravano in una protesta pubblica sarebbe culminato nell’aggressione di Wilfred De Brujin.

Che in questo momento è in queste condizioni:

E a me adesso viene in mente questa cosa: che prima dei Giardini di Luxembourg, prima del Pantheon, prima della Sorbona, prima di St Severin, prima del Quartiere Latino, prima della libreria Shakespeare and Co, prima di tutto questo ma sempre quello stesso giorno, noi eravamo a Notre Dame. Un luogo estremamente denso di fede, e perfino io che sono ateo ho potuto sentire la forte spiritualità emanata da quella cattedrale. E mi ricordo di una bellissima canzone di un film ambientato a Notre Dame: c’è una ragazza, una zingara, che prega Dio affinché faccia ritrovare agli stessi suoi credenti quei principi che in mezzo a tanto odio sembrano aver smarrito.
Forse una parte di quei contestatori e forse chi ha ridotto così questo ragazzo, visto che pare abbiano tanto tempo da perdere, dovrebbero farsi un giro a Notre Dame.

Io non so se puoi sentirmi
e neppure se ci sei.
Né se ti soffermeresti sui pensieri miei.
So che sono una gitana e non oserei di più
che pregare intensamente 
per la gente come me.


Dio fa’ qualcosa
per quelli che
un gesto d’amore non sanno cos’è.
Dio, questa gente 
confida in Te e solo il Tuo Amore salvarli potrà.


Vorrei di più
di ciò che ho.
Vorrei per sempre la gloria e l’onor.
Vorrei l’amor: gioia nel cuor.
Che Dio mi aiuti ogni giorno, per sempre.


Grazie per quanto possiedo già.
Lo so, non è tanto, ma a me basterà.
Prego per gli altri, fuori di qua:
Falli sentire i figli di Dio.
Sono indifesi, ma figli di Dio.

Post su Parigi duemilaTredici
     #1 – Minuit à Paris

Minuit à Paris

– Parigi duemilaTredici – 
#1

Qualcuno che forse legge questo blog mi aveva consigliato di non cercare risposte in Parigi: cerca solo di cogliere i suggerimenti che la città di offre, senza aspettarti di tornare diverso. Parigi, o qualsiasi altra meta all’infuori forse di Londra, non ti cambia, al massimo ti arricchisce.
È in quest’ottica che sono partito. Come al solito, il mio compagno di viaggio è stato Ciuffo, che per chi non lo sapesse è il mio amico dalla simpatica acconciatura che svirgola verso il cielo. Sono partito completamente vuoto e privo di domande, aspettando semplicemente di essere colpito dalle cose. Un po’ come quando scrivo: a me non riesce sedermi e cominciare a battere sui tasti, deve essere l’ispirazione a prendermi. Magari riuscirò a trasmettere questo procedimento anche a voi che mi leggete.
La mia Parigi inizia da Rue du Fauborg-St Denis, il quartiere dove avevamo l’appartamento. A quanto ho capito è un po’ il ghetto della città, e forse avrei dovuto intuirlo quando in metro ho visto una delle Cheetah Girls. Abbiamo trovato l’alloggio su airbnb.it, un sito che vi consiglio perché ti permette di trovare appartamenti anche a poco prezzo. La proprietaria del nostro è una certa Elodie, una tizia che parla solo giapponese e francese, quindi vi lascio immaginare come è stata avvincente la comunicazione con noi, che parliamo solo l’italiano, l’alfabeto farfallino e quel poco di inglese imparato dalla visione di tre stagioni sottotitolate di Pretty Little Liars.
L’appartamento è un buchetto in cui sono presenti una quantità impressionante di cose che non credevo potessero stare in un così piccolo spazio. Ad ogni modo, a noi servivano solo un letto e un bagno, e tutto ciò era ampiamente sufficiente, considerando che abbiamo speso pochissimo.
La giornata prosegue con una marea di chiese, strade, quartieri, posti, monumenti, riferimenti cinematografici che forse poi vi racconterò: vi basti pensare che solo il primo giorno abbiamo fatto tutto Montmartre, il Sacro Cuore, il Moulin Rouge, l’Operà, la Madeleine, fermandoci solo per mangiare una crepe alla nutella con cui mi sono notevolmente insudiciato rinunciando già da subito alla mia risibile dignità.

Non contenti e ancora digiuni, la sera decidiamo di andare a vedere la Tour Eiffel. L’effetto che fa quell’ammasso di ferraglia illuminata di notte è sconvolgente. Per un attimo, riesci a dimenticare quanto quel posto sia turistico. Nella guida c’era scritto che nel 1912 un imbecille – tale Reichelt – ha provato a volare lanciandosi dalla torre con un costume munito di ali. Morì, chiaramente: si spappolò giù, davanti a tutti.

Ma i medici dissero che non fu l’impatto a ucciderlo, bensì un infarto che lo colse durante il volo. Da questo lugubre aneddoto ho capito tre cose: la prima è che le guide turistiche possono essere molto drammatiche; la seconda è che i dottori francesi devono avere un sacco di tempo se si mettono a fare l’autopsia a un corpo caduto da trecento metri di altezza; e la terza è che a volte il cuore ti sputtana prima e peggio di quanto può fare una botta galattica.

Web reputation is the real svalutation

[ articolo che ho pubblicato 
in origine per Maintenant Mensile ]

Sono appena tornato da uno di quei seminari in cui insegnano ai neolaureati le modalità migliori per trovare un lavoro, scrivere un curriculum, fare bella figura ad un colloquio ed altre cose simili. La ragazza che teneva la conferenza ha cercato più volte di terrorizzarmi, e non solo col suo maglione bianco a collo alto onestamente inguardabile, ma più che altro con uno spregiudicato uso di avverbi e congiunzioni (era tutto un Piuttosto che e un Assolutamente sì e un Decisamente no), evidente segno di una formazione da nord Italia industriale.
Ad un certo punto passa a parlare della web reputation. Che sarebbe, in italiano, la reputazione virtuale, ma la ragazza è ormai completamente assorbita dallo stesso meccanismo che lei cerca di spiegare al suo pubblico: un meccanismo per cui ogni termine va inglesizzato, quindi il candidato deve essere smart e il resume deve essere catchy, che per quanto mi riguarda potrebbero essere i nomi dei chihuahua di Rihanna, e invece sono parole che davvero si usano.
La web reputation, spiega la ragazza citando wikipedia e gesticolando in modo tale da attirare l’attenzione sulla sua maglia bianca, è l’insieme dei dati che un’azienda che ti vuole assumere raccoglie su di te cercandoti in rete. Per questo – continua, mentre distogliere lo sguardo dal maglione diventa sempre più difficile – è importante curare la nostra immagine virtuale, a cominciare da quella dei social network a cui siamo iscritti. Dobbiamo essere gentili nelle nostre interazioni, mettere foto carine e aggiornare spesso il profilo. Un po’ come quando navighi in una chat di incontri. Dobbiamo saperci vendere.
“Potrebbe sembrare una mercificazione della persona, ma è così”, conclude la ragazza, dimostrando una volta per tutte di aver bisogno di ripassare il capitolo sulle congiunzioni. Io concludo che, nonostante il suo accento milanese e soprattutto il suo gusto in fatto di maglioni, la ragazza dice cose che hanno un senso – o perlomeno, credo che funzioni davvero così. Magari inconsciamente, ma tutti noi giochiamo a chi si sa vendere meglio, e lo facciamo sempre. In un’epoca in cui si dà tanta importanza ad essere Qualcuno, ci spendiamo per dipingere i nostri barattolini con i colori più trendy (o catchy, o quel che vi pare), ma mi chiedo quanto ci curiamo della qualità del tonno che c’è dentro.
In tutto questo, non ho capito se sul curriculum ci devo scrivere che sono al livello 66 di Candy Crush Saga.


Pensare fa male alla pelle

Pochi giorni fa mia cugina, anni undici, mi ha detto che sono un tipo proprio attivo, perché il giorno prima ero andato in piscina, poi al corso di sceneggiatura e infine alle prove di teatro, cenando con un panino al prosciutto. Ha detto proprio così, “Ale, come sei attivo!”, facendomi immediatamente pensare a quei batteri dello yogurt che favoriscono la naturale regolarità della Marcuzzi. Per un attimo mi sono sentito il responsabile del processo intestinale della Marcuzzi, sì, cara Alessia, se caghi copiosamente ringrazia pure quelli come me.
Come sono attivo, ha detto mia cugina, e il complimento acquista maggior valore se si pensa che lei fa la quinta elementare (con brillanti risultati), pallavolo, violino e conosce tutte le relazioni che intercorrono tra le Winx, non so se mi spiego. Lei, che mi dette grande soddisfazione quando, a 8 anni, scrisse il tema “Descrivi il tuo mito” parlando di Katy Perry. 
In realtà non c’è niente di attivo in me: faccio tutte queste cose per tenermi occupato. Riempio di plastica e sorrisi finti dei pomeriggi che altrimenti sarebbero costruiti sulle lacrime. Ho imparato che quando sto male devo svuotarmi del dolore più che posso, dopodiché posso analizzare scindere sezionare razionalizzare teorizzare capire, insomma: lavorare su di me. E poi basta, fine, si ricomincia, perché è così che funziona.
Stavolta non mi riesce.
Analizzo scindo seziono razionalizzo teorizzo cerco di capire e comunque lavoro, lavoro e continuo a lavorare. Penso – e non è facile navigare nella mente, perché svolti un angolo ed è un attimo che vieni inondato da ricordi, voci e possibilità – ma penso troppo. I miei amici, ognuno a suo modo, dicono che adesso devo smettere di pensare, specialmente di pensare a dove sbaglio e a dove ho colpa. Pensare fa male alla pelle, come dicono gli Eva Mon Amour, pensare troppo fabbrica fantasmi e i fantasmi poi ti perseguitano.

Ecco perché sono attivo, cuginetta: per non pensare.

Tu non puoi credere che la ragione
debba dire a questo cuore come guarire.

L’uccello

Sorrido pensando a quanti di voi siano arrivati qui attratti dal titolo ambiguo. Sorrido un po’ meno pensando a quanto spam riceverò per lo stesso motivo: è un periodo che sono sommerso da commenti del tipo clicca qui e allarga il tuo pene! o anche Foto di Britney hot a questo link o anche vagina, vagina, vagina, clicca e vedrai la vagina! che mi sono sempre domandato come fa la gente a cascarci: voglio dire, se un tizio per strada mi viene incontro urlando BISCOTTI GRATIS a me sorge il dubbio che sia tutto un bluff.
Invece no, l’uccello del titolo è un vero volatile. Stamani mi sono svegliato – se così si può definire il mio cadaverico alzarmi e dirigermi verso la cucina – e ho sentito dei rumori. Tipo un TLOC, ripetuto a intervalli irregolari. Ho guardato la finestra e ho visto che un aggeggio colpire la finestra. Non avendo gli occhiali ed essendo io leggermente tendente al catastrofico, ho pensato subito ad una bomba. Poi, osservando meglio, ho capito che era un uccellino. Aveva le ali nere e il petto bianco e giallo – posso descrivervelo così minuziosamente in quanto ho avuto modo di guadarlo parecchio, visto che se ne stava lì a reiterare il suo sbatacchiare contro la finestra.
Guarda che c’è il vetro, scemo – gli ho fatto io – ed è infrangibile – ho aggiunto, cercando di alleviargli il dolore distruggendo sistematicamente tutte le sue speranze.
Non so se mi conoscete, ma io ho questa pessima abitudine di dover trovare allegorie dietro ogni cosa. Che da una parte mi fornisce inquietanti spunti per il blog, ma dall’altra mi riempie la vita di seghe mentali. Ad ogni modo, non ho potuto fare a meno di chiedermi cosa potevo capire da quell’uccellino tonto che cercava di entrare dalla mia finestra. A cosa potevo associarlo.
All’inizio ho pensato a quello che avrete pensato sicuramente anche voi, ovvero, nell’ordine: Angry Birds, Gli uccelli di Hitchcock, Moana la dà a tutti, La metà oscura di Stephen King, e il quadro che si delineava era chiaro: morte certa entro le sette.
Poi ho capito. Mary Poppins.

( minuto 0:52 )
Ho ragione, vero? O morirò entro le sette?

Pioggia vento merda amore

Qualcuno mi ha detto che quando nei film piove è per rispecchiare lo stato d’animo dei personaggi. E io penso che sono due settimane che piove. Tanto che il fiume vicino casa mia ha raggiunto il livello di allerta, e la cosa mi preoccuperebbe se continuasse a piovere. Invece, in questo momento (le 00:49 di una camera incasinata e priva di dignità), non piove. C’è solo un vento fortissimo che cerca di dimostrare che anche l’aria può far male. Lo senti che urla, e lo sai che spazzerà via tutto, dalle foglie alle speranze.
Qualcuno mi ha detto che quando nei film piove è per rispecchiare lo stato d’animo dei personaggi, ma nessuno mi ha detto che la realtà è molto più crudele. Piove un sacco, qua dentro. Mi piove dentro il petto, e sono gocce affilate che recidono le vene. In testa niente, solo vento, che è bravo a svuotare la mente e renderla grigia e senza sale. Le cose perdono di senso, il cuore che muore e non finisce mai, nessun rispetto verso sé stessi e flash ovunque, tantissimi flash ovunque, come in un infinito trip causato dalla peggiore droga depressiva. 
A un certo punto scatta qualcosa. È un suono più irrisorio del click di un accendino, ma è il primo dei rumori. Puoi chiamarlo bisogno di sole, se ti va.
Due cose. Primo, ho visto un film, qualche giorno fa. Parla di lei, che è matta, e di lui, che è matto, e che ha così tanto bisogno di sole che lo vede ovunque, e si arrabbia con Hemingway quando i suoi libri finiscono male, perché tutti i libri dovrebbero finire bene. Secondo, ci sono tante situazioni orribili nello stesso mondo in cui vivo io, e non occorre spostarsi in Africa, e dovremmo tenerle presente quando pensiamo che i nostri problemi siano i peggiori, dovremmo ridimensionare la cosa e capire che c’è chi affoga in molta più merda. 
Non lo so dove voglio arrivare. Forse a dirmi che è l’ora di rinascere, di smettere di avere paura, di aggrapparsi a qualcosa e tirarsi su, piano piano, sputando un po’, stringendo i denti, fingendo che non faccia tutto così irrimediabilmente schifo.
In quel film, ad un certo punto, lei urla a lui Senti, che vuoi fare con quella canzone, vuoi passare tutta la vita ad averne paura? È una canzone, non farne un mostro, e io ho pensato che siamo noi a crearci gli stessi fantasmi da cui poi scappiamo, ed è stupido. Per giorni non ho ascoltato musica, ne avevo paura, non mi dava solo noia ma mi faceva male, ma adesso, adesso che c’è così tanto vento che non sento nemmeno quello che dico, adesso volevo cantarmitici questa.

La sindrome Call me maybe

Il problema di avere un obiettivo è che potresti raggiungerlo. Per portare un esempio puramente casuale e affatto riferito alla mia vita personale, quando intraprendi un corso di laurea non pensi che prima o poi finirai di studiare e ti troverai a confrontarti con un grande interrogativo: e ora che faccio?
Credo di essere una persona con un grande bisogno di sentirsi sempre in costante crescita, e ho sempre cercato di svicolare da questa necessità con una specie di camaleontismo che applico nelle scelte più sceme.  Per esempio, Sabato sera, preso da un’improvvisa voglia di trasgressività, ho indossato gli skinny bianchi e ho ordinato un Manhattan, cosa che non consiglio a nessuno dato che è un po’ come bere della candeggina da una coppa Martini. Ma tutta questa ecletticità nelle scelte è un insieme di piccolezze che acquisivano senso finché dietro stava il grande progetto universitario da portare avanti. 
In questi giorni, dunque, mi sento un po’ spaesato. Un po’ come deve essersi sentita quella tizia dal nome impronunciabile che canta Call Me Maybe che adesso cercherò su wikipedia perché non ho la minima idea di come inserire le vocali nel suo odioso cognome. Ecco: Carly Rae Jepsen. 
Pensateci: questa Carla Rai Gialappa fa una canzone (anche pesantemente idiota, diciamolo) e nell’incredulità generale delle case discografiche riesce a rincoglionire tutti, prendendosi quel successo totalmente immeritato di cui godono le popstar di questo tipo. Ma prima o poi si sarà dovuta confrontare con lo stesso interrogativo che si è posto a me. Sarà arrivato il momento, presumibilmente dopo un’orgia a casa di Hilary Duff, in cui la suddetta Clara Rea Jeep si sarà guardata allo specchio e, osservando il suo riflesso pallido dovuto all’astinenza da eroina, si sarà chiesta cosa cazzo sarebbe andata a fare.
La storia ci insegna che la cara Curling Re Geppi ha proseguito la sua carriera musicale partorendo canzoni con la stessa formula già collaudata, ossia un motivetto e un testo di portentosa demenza uniti a un video in cui lei cerca disperatamente di copulare con dei fregni cosmici. 
Ma non è pensabile una risposta analoga anche per il mio caso. Senza stare a farla troppo lunga, diciamo che mettersi in gioco è una cosa di cui, per il momento, sento un gran bisogno. E senza nulla togliere a Call me maybe, diciamo che è un’altra rockstar a cui mi vorrei ispirare.

I still don’t know what I was waiting for
And my time was running wild
A million dead-end streets
Every time I thought I’d got it made
It seemed the taste 
was not so sweet
So I turned myself to face me
But I’ve never caught a glimpse
Of how the others must see the faker
I’m much too fast to take that test

Contare (stupido discorso post-laurea)

Ciao a tutti. È la festa del mio compleanno e della mia laurea, e come da tradizione è il momento del discorso. “Tradizione”, beh, in effetti è il secondo anno che lo faccio, ma non starei a sottilizzare. D’altra parte, dopo quanti anni una cosa è tradizione? Cinque, dieci, cinquanta? Chi lo decide? Voglio dire, e se muoio domani?
Ed eccoci qua, ventiquattro anni e 157mila 426 gocciole Pavesi dopo la mia nascita. Okay, le gocciole non si vedono perché ho un metabolismo rock che il mondo giustamente mi invidia, ma ci sono tutte, ve lo giuro.
Ed eccoci qua, tutti riuniti per una serata senza pretese. Chiacchiere, ricordi, risate e magari due conti. Dopo ventiquattro anni, di cui svariati passati dietro a studi prevalentemente scientifici, posso dire di avere imparato a contare. Ventiquattro anni, per esempio, sono 8760 giorni – non ho considerato gli anni bisestili per ragioni di voglia, spero perdonerete questa grossolana approssimazione – e sono anche 210mila 240 ore, 12 milioni 614mila 400 minuti, 756 milioni 864 mila secondi e devo finire qui il giochino perché se provo a calcolare i millisecondi la calcolatrice esplode e dovrei prendere quella dell’università, comunque il concetto mi sembra chiaro.
Ventiquattro anni sono tutto questo tempo, ma in termini numerici sono anche: due genitori, una sorella, quattro nonni, sei spettacoli teatrali, 417 post su Zucchero Sintattico, cinque anni di “si vede che le cose le sai ma non le sai esprimere” a biologia, un solo piccolo povero trenta e lode che rivendico con orgoglio, cinque magliette a righe, una decina di concerti, 500 numeri di Topolino, tre paia di stivali marroni, almeno cinquanta appuntamenti al buio, sette ombrelli tra persi e rubati, otto stagioni di Will&Grace. 
E poi ci sono le cose che non si possono contare, perché troppe, o perché inquantificabili. Come i litri di Long Island. Come gli euro spesi da H&M. Come tutte le volte che ho detto In qual è non ci va l’apostrofo. Come l’odore dei libri nuovi, e come le metafore inflazionate tipo questa. Come i ringraziamenti ai genitori di James Franco, di Matt Bomer e dei modelli di asos.com. Come le sere passate nel parcheggio del McDonald’s a parlare. Come le farfalle nello stomaco. Come la Vodka nello stomaco. Come i Ti voglio bene pensati ma non detti. Come i Ti voglio bene pensati ma non detti ma recepiti ugualmente. Come i puntini rossi, che possono essere le correzioni sui test a crocette, o i brufoli scoperti di sabato mattina, o i freni delle macchine di notte in autostrada. Come la notte. 

Come noi. 

Perché senza di noi, tutto questo, che l’ho contato a fare?