La linea della maturità sentimentale

Essere dei single paranoici comporta necessariamente una cosa: che a un certo punto dell’esistenza ci si trova davanti a quella linea di confine dopo la quale – lo dico in maniera sintetica, in parole povere ma dolci, proprio come farebbe un francese – non te ne frega più un emerito cazzo.
È la linea di confine dopo la quale tu sei definitivamente certo che ti ami e che metti al primo posto soltanto te stesso. E solo dopo di te vengono la famiglia, gli amici, il lavoro e le altre cose belle che la vita ci riserva, come i Mikado o i saldi da H&M. È la linea che pone fine alla tua ricerca ossessiva dell’amore, e che ti fa dire una volta per tutte, con una fermezza solenne, la fatidica frase: ME NE STRASBATTO LA MINCHIA. 
Certo, non tutti oltrepassano questa linea. C’è chi prima di arrivarci incorre nella disgrazia di fidanzarsi, per esempio, perdendo così l’opportunità di digievolversi in quello che è il pokemon più raro di tutti, ovvero l’essere umano sentimentalmente maturo. Ma gli ostacoli per diventarlo sono molteplici: per citarne alcuni a caso, menzionerei l’accontentarsi del primo che passa, o anche il ritornare con l’ex, sì sì, proprio l’ex che ti ha cornificato reiterate volte e che ti ha trattato malissimo e che no, non cambierà per te, no, mai. Tuttavia, alcune creature particolarmente sfigate non cederanno a tali tentazioni e potranno vantarsi di essere, udite udite, sentimentalmente mature. 
Sole, ma sentimentalmente mature.
O anche: sentimentalmente mature, ma sole. (Spero abbiate gradito la differenza tra i due accostamenti, ci ho ragionato mezz’ora su come rendere più efficace la proposizione)
Ora, dire che una persona matura non soffre la solitudine, secondo me, è eccessivo e utopistico. Dipende da persona a persona ovviamente, ma non è che uno è totalmente felice, da solo. Persino il Dr House sembra un vecchio orso brontolone però intanto se la fa con la Caddy e chiacchiera con il nero, con quello bono e con la tizia che poi va a fare Once upon a time e insomma madonna che casino questi telefilm. Diciamo che una persona matura combatte la solitudine per mezzo di svariate tecniche, come nutrire i propri diciotto gatti, o aprire un blog, o anche infilzare con gli stuzzicadenti la bambola voodoo di Barbara di Paint your life. Insomma, uno è single, ed è anche abbastanza maturo, ed è più o meno sereno in questa situazione. Però non è che è proprio proprio completamente felice. A volte capita che si possa sentire un briciolino, un pochino pochissimo, leggerissimamente, solo.

Come me ora, ecco.

Milano e un rosso splendore [Florence + The Machine 20.11.2012]

[ Fan report che ho scritto
per lamusicarock.comqui il link ]
20-11-2012
« Comunque avevano ragione quelli della direzione: stasera ci sarà una marea di gente »
« Ammazza, guarda qua che fila… »
« Che ha detto la direzione, quanti sono? »
« Diecimila, sold out »
« Diecimila?! Cazzo… »
« Ma poi chi sono questi che suonano stasera? »
« Inglesi, mai sentiti dire però… »
I due addetti alla sicurezza del Mediolanum Forum di Assago sono molto perplessi nell’osservare la fila gigantesca che si è formata davanti ai cancelli che loro stanno controllando. E sono molto perplessi perché probabilmente non hanno mai avuto il piacere di sentire i Florence and The Machine, e beati loro. Beati loro, perché possono ancora ascoltarli per la prima volta, e innamorarsene perdutamente, così come è successo a noi, tutti e diecimila.
È un’ombra, la prima cosa che vediamo. La sagoma di Florence Welch si staglia su una scenografia chiara, poco prima di rivelarsi al pubblico in tutto il suo rosso splendore. La pelle pallida, la chioma infuocata, un lungo vestito che sa di antico, terribilmente bellissima, apre la serata sulle note di Only if for a night.

foto di Linda Paladini
E continua a cantare anche per le successive quattro canzoni – What the water gave me, Drumming song, Cosmic love, All this and heaven too – senza mai rivolgersi al pubblico con parole che non appartengano ai suoi testi. Come se volesse sottolineare il fatto che è la sua voce la protagonista della serata, non inutili discorsi, non ambiziosi effetti speciali: ci sarà lei e la sua musica, e sarà meraviglioso.
“Ciao Milano. Noi siamo Florence and The Machine. Veniamo dall’Inghilterra” dice, solo adesso senza cantare. “Se siete venuti qui con un amico, o con la persona che amate, sollevatelo durante la prossima canzone” ci invita a fare, prima di cominciare una portentosa performance sulle note di Rabbit heart. La notte prosegue con quello che è forse il brano più conosciuto in Italia: You’ve got the love
Florence canta, balla, volteggia, salta, corre da una parte all’altra del palco e tutto questo non sembra influire minimamente sulla sua voce, che non ha mai un crollo né mostra mai carenze. È perfetta. E dietro di lei tutta la Machine la accompagna durante la serata, che va avanti con Lover to lover, e poi Heartlines, e poi Leave my body
Successivamente è il turno di Sweet nothing, canzone frutto della collaborazione col produttore scozzese Calvin Harris, responsabile anche della versione remixata di Spectrum. Ed è proprio prima di Spectrum che la rossa cantante ci invita ad abbracciare e scuotere i nostri vicini di posto e ballare con lei nella più totale libertà. 
La prima conclusione è lasciata a No light, no light, pezzo che nel ritornello esplode in tutta la sua potenza, sconvolgendo il pubblico che dopo un’ora e mezzo di musica è completamente stregato. Lo spettacolo è stato intenso e così pure le emozioni che abbiamo provato, e ora che c’è la consueta pausa prima che cali il sipario ci dispiace che tutto questo stia per finire. Ma il Forum si tinge di rosso perché i Florence and The Machine stanno per esibirsi con Shake it out.

Dog days are over pone fine alla notte. Florence Welch raggiunge il punto centrale della scenografia e torna ad essere un’ombra, nella stessa maniera usata inizialmente per manifestarsi. Sparisce, come un fantasma allo spuntare del sole, ma noi ne abbiamo ancora fresca l’immagine viva di quando, fino a un minuto prima, ballava sul palco come una fata dai capelli ardenti. Un’immagine che non scorderemo.

Anch’io porto pantaloni rosa

Vedi, è successo che un quindicenne si è suicidato, e pare che sia perché era vittima di bullismo omofobo. E in questo Paese in cui esiste il curioso mestiere dell’opinionista, tutti hanno voluto dare il proprio parere. Anche gli idioti, ed è per questo che oggi mi è capitato di leggere cose come Era debole, io venivo preso in giro per gli occhiali ma non mi sono mai suicidato, o anche Se l’è cercata perché se non vuoi morire non te li devi mettere, i pantaloni rosa, o anche, senti questa che è favolosa: Non condivido il suo gesto estremo.

Che forse sono cose un po’ superficiali da dire, e forse il tempo potrebbe essere impiegato meglio, per esempio stando zitti. Ma che ne sapete voi di cos’è essere gay e avere quindici anni. Che ne sapete voi di com’è interrogarsi ogni giorno sapendo di essere sbagliati e sperare (sperare, dico, sperare!) che sia una fase, che passerà. Che ne sapete voi di quanto sono fragili alcuni ragazzi, e di quanto sono crudeli altri.

Vedi, quando dico che è meglio non dire frocio o finocchio o tutta una lunga serie di sinonimi che potete tranquillamente ascoltare guardando Colorado Cafè, non lo faccio perché mi sento personalmente offeso dal fatto che tu mi chiami frocio o finocchio. E magari ci credo che tu non sei omofobo e che quando dici frocio o finocchio lo fai per scherzare, okay.

Ma metti che quando dici frocio o finocchio lì vicino c’è la tua cugina piccola, o il tuo fratellino, o una persona dalla mentalità chiusa o influenzabile o troppo debole. Allora può succedere – e non sto a dirvi tramite quali meccanismi facilmente intuibili – che nel suo cervello chiuso o influenzabile o troppo debole s’insinui inconsciamente l’associazione gay uguale brutta cosa.

Vedi, c’è una cosa proprio semplicissima da capire.
Che se a te non piace il rosa, ma magari preferisci il nero, o il grigio, o il bianco, o il verde macchiato di sugo, o lo zebrato o il leopardato, o il filtro seppia, o il viola, o l’azzurro lapislazzuli, o il fucsia a pois gialli, o qualsiasi altra tonalità di colore consentita dalla legge, vedi, per me non c’è problema.
Ma se a me piace il rosa, io ho il diritto di indossarlo senza che tu mi rompa il cazzo. E non solo. Tu lo devi insegnare ai tuoi figli o ai tuoi studenti, che il rosa è bello quanto il blu. Che ogni colore merita lo stesso rispetto. 

Esclusivo: ho scoperto a cosa serve twitter

Era venerdì sera, e io avevo due ore di tempo prima che i miei amici mi venissero a prendere per portarmi a vivere la notte. Ho sempre voluto dirla, ‘sta cosa del vivere la notte, fa così tanto pubblicità di una birra a target giovanile.
Avrei potuto impiegare il tempo in milioni di modi socialmente utili. Andare avanti con la tesi, leggere un saggio russo, sgranare i fagioli.
E invece mi sono connesso a twitter.
Sì, su twitter sono simpatico come una chiave inglese su per il naso. È che mi devo adeguare agli standard di snobbismo, capite. Comunque, non contento di aver già perso abbastanza tempo, dopo poco pubblico un secondo tweet. E poi un terzo.
Tralasciando la mia ironia indubbiamente meritevole di una testata ben assestata, la cosa interessante è che i miei follower iniziano a rispondermi.
Dopo che Michela mi fa vedere un estratto di Friends in cui Ross viene sputtanato per i suoi pantaloni di pelle, rinuncio definitivamente all’idea di indossarli. Tra l’altro ne avevo già parlato qui dei miei skinny di pelle, e del fatto che sono praticamente impossibili da togliere da sobrio. Comunque, mi viene in mente un’idea GENIALE. 
La risposta del popolo di twitter è entusiasta. Neanche a X Factor votano così in tanti.
 
 
In preda al panico per la marea di pareri ricevuti, decido di chiamare il mio amico Ciuffo per un’ultima, definitiva consulenza. E ovviamente twitto il responso.

. . .
Grazie a micaMichela posso finalmente farmi una bimbominkiosissima foto nel bagno e soddisfare il mio ego. Ho aspettato questo momento da secoli.
Ed è così che ho scoperto a cosa serve twitter: a NIENTE. Però devo ammettere che, a volte, riesci ad ottenere qualche soddisfazione
Adesso mi sento definitivamente arrivato.

La sindrome del bravo ragazzo #2

– Parte seconda –
– Fenomenologia del bravo ragazzo –
Nella prima parte vi raccontavo un simpatico aneddoto che mi ha portato ad una serie di elucubrazioni  dall’importanza pressoché cosmica riguardanti la figura del bravo ragazzo. Non si può dire il contrario: il bravo ragazzo esiste. Certo, è vero che ognuno di noi ha dentro di sé sia una parte di luce che una di oscurità, come ci ha insegnato la saga di Harry Potter o anche un qualsiasi episodio di Sepolti in casa, ma è innegabile che alcuni uomini siano più devoti al Bene rispetto ad altri. 
E questi uomini sono i bravi ragazzi.
Ma non tutti i bravi ragazzi sono uguali. Altrimenti avremmo un esercito di buoni fatti tutti con lo stampino. Invece esistono vari archetipi a cui possiamo ricondurre tutti i bravi ragazzi, e io adesso renderò questo blog utile all’umanità e ve li descriverò. Signore e signori e Maria De Filippi, ecco a voi la mia personale disamina sulla figura del bravo ragazzo.
Tipologia n. 1 – il Dawson 
anche detto quello assolutamente inutile
È una categoria considerevolmente odiosa. Non perché i Dawson siano davvero antipatici, bensì perché si comportano come amebe e hanno pure la pretesa di dare il nome a telefilm degli anni 90 che durano ben sei stagioni. Ad ogni modo, l’esemplare di Dawson subisce ogni genere di angheria dai cattivi, senza mai reagire. Non ha un briciolo di spina dorsale, ma si sente figo quando compie cose trasgressive, tipo scaccolarsi.
Tipologia n. 2 – il Peter 
anche detto il figliolo dalle umili origini
L’esemplare di Peter non conosce la malvagità, poiché è stato cresciuto in un ambiente povero e ameno ma pieno di amore famigliare. I genitori, di solito molto simpatici ma con gravi problemi economici, hanno preferito morire piuttosto di vendere il figlio alla mafia cinese, con la conseguenza che il bravo ragazzo che ne è venuto fuori è un bravo contadino, sa fare cose come mungere le mucche ed è terribilmente scemo.
Tipologia n. 3 – il Clark 
anche detto quello che gioca all’eroe
Un brutto giorno una figura famigliare paterna muore, lasciando detto che da grandi poteri derivano grandi responsabilità*, e da quel momento il Clark comprende quale è davvero il suo destino: mangiare biscotti. Ah, no, scusate, quello è il mio. Dicevo, comprende che il suo destino è proteggere l’umanità dai cattivi e dalla calvizie di Lex Luthor
* lo so che questa frase la dice lo zio di Peter Parker e non di Clark Kent, ma ho già usato il nome Peter per la tipologia n.2
Tipologia n. 4 – il Finn 
anche detto quello popolare ma buono
È il classico ragazzo popolare completamente inverosimile con cui l’America ci martoria le palle inserendolo in TUTTI i film e telefilm per adolescenti. Di solito l’esemplare di Finn è molto carino nonostante una faccia da pesce palla lesso, ed è sempre il capitano della squadra di football. Sta insieme alla strafiga stronza, ma è così buono che gli piace anche la sfigata mora non-strafiga-ma-comunque-abbastanza-carina che gli sbava dietro. Ma allora lascia la stronza e mettiti con la sfigata, Dio santo, è tanto difficile?!
Forse ho dimenticato qualche categoria, ma le essenziali mi sembra di averle inserite. In definitiva, mi piace prendere in giro questi bravi ragazzi, ma la verità è che loro sono creature di luce, e bisogna tifare per loro. GOOD BOY RULEZ!

La sindrome del bravo ragazzo #1

– Parte prima –
– Non sono un criminale –
Mi trovo a mensa, in fila alla cassa. Sto pensando a quanto gli One Direction siano così piccoli e tenerini che potrebbero essere assimilati alla versione maschile senza poteri delle Winx, quando mi accorgo che è il mio turno. Estraggo la tessera e la passo nel lettore. “Hai superato il credito!”, mi fa la tizia alla cassa con un’aria visibilmente allarmata. Stai calma, Dio Santo, neanche avessi offeso tua sorella, che tra parentesi è scema. 
Allora acquisto una ricarica da cinque euro. 
Mi sposto sul banco del sale, del pepe, del sale iodato, della maionese e del ketchup su cui appoggio il mio vassoio intanto che faccio la ricarica. La tizia, sperando chiaramente di raggiungere il grado di ditoinculismo massimo, arriva e mi porta via il vassoio. A questo punto della narrazione è necessaria una mappetta per farvi capire meglio.
Okay, in realtà la mappetta è completamente inutile ma mi sono divertito a disegnarla, AHAHAH.
Per farvela breve, la tizia alla cassa aveva messo in salvo il mio vassoio temendo che io potessi fuggire col cibo senza pagare il mio pasto, consistente in: uno (1) yogurt all’albicocca, ottanta (80) grammi di pasta panna e pesto e un (1) piatto di fagiolini che poi avrei scoperto gradevoli quanto mangiare il polistirolo.
Ora, io non sono un criminale. La cosa criminale più vicina a me è che qualche mese fa sono uscito con uno che credo sia il vicino di quella che hanno rapito a Gello, il che significa che probabilmente sono uscito con un assassino, ma per il resto ho la fedina penale pulita.
Non sono un criminale, me lo si legge in faccia. Sono ragionevolmente sicuro del fatto che se unisci i punti neri del mio viso da sinistra verso destra viene fuori la scritta BRAVO RAGAZZO. (Su due righe, chiaro.) 
E non è che la cosa mi faccia piacere. Primo, perché ho una faccia non particolarmente espressiva che quando non sto pensando a niente scatta l’automatica impressione che io sia tonto. E secondo, perché metti caso che ogni tanto io voglia fare lo stronzo, non posso perché non sono credibile.
Per cui, Cristo Santo, prenditi questa tessera e ridammi il mio cibo. L’evento che vi ho appena raccontato, che si è concluso con un lieto fine – cioè con io che finalmente pranzo – mi ha fatto pensare a numerose considerazioni sull’esistenza che per il momento non vi esporrò. Devo ancora digerire i fagiolini.

L’intesa dei single

Arriva quel momento, nella vita di un single, in cui ti rendi conto che è passato un periodo di tempo consistente dall’ultima volta che qualcuno ha pensato anche solo vagamente all’eventualità che tu potresti, forse e sempre che i vostri profili astrali siano compatibili, essere il suo partner. 
Quando lo realizzi di solito stai facendo cose come – esempio puramente casuale non necessariamente riferito al mio vissuto – aggiungere utenti di twitter in base al numero di addominali che si vedono nella fotina, ma sei costretto ad interrompere questa vitale attività per iniziare ad enucleare a te stesso tutta una serie di gigantesche paturnie che successivamente sentirai di dover condividere con qualcuno.
Qualcuno, appunto. Chi è il prescelto che deve essere affogato nelle mie paranoie? Di solito io scelgo di ammorbare Effe, che è una mia amica con cui ho in comune diverse cose, come il sarcasmo attraverso cui filtriamo la vita, la passione per Just Dance che forse era meglio non scrivere sul blog, l’odio verso la moda del leopardato e infine il fatto di essere entrambi single.
Ora affermerò una cosa molto impopolare che tutti cercheranno di smentire (e io li lascerò smentire, tanto che me ne frega), e cioè che una persona fidanzata ragiona in una maniera diversa di come ragionerebbe/ragionava da single. Non è un’offesa, tranquilli, è solo una constatazione. Così come questo seduto accanto a me in biblioteca: puzza. Ma non è un’offesa, è solo una constatazione, una bruttissima constatazione che i miei ricettori olfattivi avrebbero preferito non constatare.
Ho una teoria: che quando ti fidanzi, oltre a tutti quegli odiosi effetti collaterali tipo che diventi monotematico, che inizia a piacerti Baglioni e che sembri psicolabile, ti si azzera anche quella parte di memoria dove stanno le tue sensazioni da single. Perché se un fidanzato si ricordasse davvero di quando era single, non se ne uscirebbe con frasi come L’amore arriva quando meno te lo aspetti (se è della fazione Lo cerchi troppo, perché poi c’è anche la fazione Non lo cerchi abbastanza, i cui membri di solito ti dicono Se non lo cerchi, l’amore, come fai a trovarlo? o anche Tu hai paura di impegnarti! E poi c’è la fazione Tromba, per la quale il sesso è la risposta ad ogni problema, il che ti fa intuire anche come mai la gente si fidanza. Capite bene che uno non sa più con chi sfogarsi: qualunque cosa faccia sbaglia). 
( Parentesi. Qualche settimana fa in discoteca un tizio fidanzato si avvicina e, udite udite: senza che io gli avessi chiesto niente, mi fa “Tredici, se cerchi l’amore, l’amore non arriva. Non farlo”. Io ho sbattuto le palpebre ad una frequenza che nel linguaggio dello sbattimento di palpebre si traduce più o meno con MA CHE MINCHIETTA VUOI e ho risposto buttando giù il mio Invisibile Imbevibile alla Fragola. )
Cari fidanzati, se volete interagire intelligentemente con un single, dovete prendere esempio dalla mia amica Giò, che ogni tanto parte e dice Tredici, io proprio non capisco come mai sei single: sei divertente, sei intelligente, sei carino, sei interessante, hai un sacco di passioni, e tutta un’altra serie di complimenti dalla dubbia veridicità che la prossima volta mi appunterò per riportarli fedelmente nella mia descrizione sulla chat.
Ma a parte Giò e una cerchia ristrettissima di individui fidanzati con cui posso decidere di parlare di me, è ovvio che io preferisca Effe. Perché tra single ci capiamo subito. Perché abbiamo bisogno di sprecare ore della nostra vita a riempirci di stronzate sul motivo della nostra condizione, a dirci quelle cose inutili e sbagliate tipo Sei troppo per lui o Non ti vuole perché lo spaventi, a raccontarci che un tempo in Tibet eri più interessante quante più collanine avevi addosso (e in quel caso ci sarebbe bastato svaligiare il reparto accessori di H&M), a sputtanare tutti i vari oroscopi che è dall’alba dei tempi che prevedono incontri romantici per Acquari e Capricorni che io a quest’ora sarei sposato per tre religioni diverse, a linkarci canzoni di Marina Rei o Carmen Consoli che rispecchiano il nostro stato d’animo, a rassicurarci da soli che prima o poi arriva. 

Svitatopoli


– Lucca Comics and Games 2012 –
Sono solito associare il mese di Novembre a due cose: numero uno, che prima o poi qualcuno nel tuo gruppo di amici ti chiederà cosa si fa per Capodanno, dando vita così ad una serie di gigantesche turbe psichiche che attraversano varie fasi. Una prima fase di vuoto totale, seguita da una seconda in cui elenco compulsivamente tutte le alternative che mi sovvengono (“A casa di questo? A casa di quello? Alla festa di tizio? In discoteca? In piazza? Aspettate, ci sono: ANDIAMO A ROMA!”) e infine, quando ormai l’ansia ha raggiunto livelli drammatici, c’è la terza fase chiamata Ma magari mi ammalo, in cui è possibile vedermi in mutande e canottiera pedalare per le vie del mio paesino il 20 di Dicembre. Poi succede che per fortuna mi internano e così passo l’ultimo dell’anno insieme agli infermieri del reparto psichiatrico che mi tengono fermo mentre ballo il disco samba.

Ma la seconda cosa che collego a Novembre sono i Lucca Comics and Games.

Lucca Comics and Games è la più grande fiera italiana, e terza nel mondo, dedicata al fumetto, ai giochi, ai videogiochi, all’animazione e a tutto ciò che riguarda il fantasy. Per quattro giorni la città si riempie di padiglioni, mostre, fumetti, libri, giochi, film, costumi e, sopratutto, gente.

Vivo in una città bellissima. Per quanto sia contrario a questo aggettivo a volte troppo inflazionato, c’è poco da fare: Lucca è una città bellissima. Eppure non si può dire che sia una città molto viva: le cose da fare sono sempre le stesse e cioè una manciata di pub e di cinema e il vuoto disperato in qualsiasi momento che non è sabato sera. È per questo che nel periodo dei Comics è tanto divertente uscire: perché vengono sfruttate davvero tutte le opportunità che Lucca offre, che sarebbero infinite.

E poi c’è un altro motivo che mi fa amare alla follia i Lucca Comics and Games. Che vai in giro per la città e vedi ragazzi impazzire perché nello stand là c’hanno il primo numero di un qualche fumetto, o vedi in giro persone mascherate dai personaggi di videogiochi o di cartoni animati o più probabilmente di manga di cui ignori l’esistenza, oppure senti dei discorsi tipo “Infliggi un danno a una creatura bersaglio” “Sì ma devi tappare tre montagne” “Contromagia” “No che stronzo”, oppure sei lì che passeggi sulle Mura di notte e ti ritrovi nel bel mezzo di una battaglia, con due eserciti armati di spade di gomma che se le danno di santa ragione e si incitano al grido di Dalle ceneri alla vittoria!, oppure che ti ritrovi al concerto di Giorgio Vanni a cantare a squarciagola la sigla dei Pokemon, oppure puoi assistere allo spettacolo impagabile di un bambino a cui si illumina il viso perché ha visto Spiderman che è il suo eroe preferito e adesso lo abbraccia forte e ci fa la foto insieme.

Foto di Laura Leitermann

Sapete, i lucchesi sono animali un po’ strani. C’è tutta una categoria di lucchesi che pensa di vivere a Milano. O meglio, vorrebbe vivere a Milano, ma senza il caos di Milano. Quando cresci a Lucca, sei portato a pensare che la cosa giusta da fare nel weekend sia indossare pantaloni beige e maglioncino firmato e andare nel tuo solito localino a fare un ape con lo spritz mentre parli di calcio o della tipa che hai conosciuto in palestra.
Poi cresci, e capisci che non è necessario sottostare a queste regole sociali, ma non importa, perché per quattro giorni all’anno puoi rivendicare il tuo diritto di avere passioni diverse, di essere diverso, di appartenere a quella amabile popolazione di svitati che invade la città, di essere un orgoglioso cittadino di Svitatopoli.

Foto di Laura Leitermann, Francesca Ramacciotti e mie

Ecco perché amo Lucca Comics and Games. Perché abbiamo trecentosessantuno giorni l’anno per non avere le strade bloccate dal traffico o la rete cellulare che funziona, abbiamo trecentosessantuno giorni l’anno per fare le stesse cose e dormire, abbiamo trecentosessantuno giorni l’anno per essere tutti uguali e tutti giusti, ma ne abbiamo solo quattro per essere felicemente svitati.

A proposito. Io, ai Comics, mi sono comprato un neurone:

Il tè senza zucchero

Un paio di settimane fa io e i miei amici eravamo particolarmente in vena di sentirci eterosessuali, così abbiamo deciso di passare la serata in una sala da tè. Ora, il medico mi ha prescritto di non andare in paranoia per le questioni lessico-grammaticali, e vi giuro che questo necessita di uno sforzo considerevole da parte mia, tuttavia cercherò di non controllare se “tè” è la corretta dicitura, o se è meglio thè o te o the o thé o tiè o teh o hte o qualsiasi altra permutazione di queste tre lettere.
La sala da tè dove ci rechiamo ha un nome in francese adattissimo per una sala da tè o per un profumo o per una prostituta d’alto borgo, ed è un posto molto grazioso. I tè nella lista sono tantissimi e hanno dei nomi che ricordano vagamente le posizioni del kamasutra, così io ne scelgo uno dal nome innocuo: “Polvere da sparo”, che secondo la descrizione avrebbe potuto risvegliare qualsiasi cosa per cui, penso, magari funziona anche con la mia umanità.
A servirci è un ragazzo eterosessuale quanto Solange che ci porta le teiere, le tazze, i piattini, i cucchiai, le fettine di limone, lo zucchero E NESSUN BISCOTTO. “Il tè non si beve, si degusta. E se mangiaste intanto che degustate, rovinereste la degustazione“, dice intanto che io mi figuro di affogarlo nel brodo di pollo. Poi, per essere proprio sicuro di essere odiato fin nel profondo, aggiunge: “E non ci dovete nemmeno mettere lo zucchero, per lo stesso motivo”.
A distanza di due settimane, spinto dai sensi di colpa per aver passato i giorni di festa senza ingerire alcuna fibra vegetale o, più genericamente, alcunché di salutare, mi sono fatto un tè verde, che è quella bevanda paracula che assumiamo quando abbiamo qualcosa da farci perdonare al nostro organismo. Ed è successo che nel tragitto dal fornello al tavolo i miei occhi non hanno potuto fare a meno di notare il pacco di Gocciole Pavesi che gridava il mio nome.
Ed è andata più o meno così:
È andata più o meno così, per più o meno dieci volte.