La mia vita, più o meno.

The importance of being a loser

La questione non è essere o non essere. Non è mai stata davvero la questione per nessuno, quella. 

Nell’episodio che sto per raccontarvi la questione potrebbe invece ricondursi all’essere sfigati o non esserlo, ma con un abile stratagemma narrativo che nel linguaggio tecnico si chiama promessa e che serve per incuriosire lo spettatore dandogli un motivo per seguire la storia fino alla fine vi anticipo che non è nemmeno questo, il punto. 
La questione non è la serie di eventi che comincia con l’orario assassino di questa settimana di lezioni per il quale non riesco a trovare altro giorno per andare a fare la spesa se non l’ultimo del weekend, durante il quale il cielo non è esattamente sereno come è stato fino al venerdì ma non si preannunciava nemmeno troppo catastrofico, con quel solito alone grigio che separa Torino dal sole.
La questione, dunque, non è la puntualità con cui un cataclisma atmosferico, che i meteorologi stessi si rifiutano di chiamare pioggia data la portata e la forza dell’evento, si è abbattuto su di me non appena, carico di borse, ho messo piede fuori dalla Lidl, bensì che, nonostante gli dèi o il caso o la sfiga cosmica abbiano mandato un temporale ad accompagnarmi precisamente per il tragitto dal supermercato a casa, io avevo l’ombrello.
La fortuna, a volte, si impara.

Felicità vera

Il cinema è un mondo mostruoso, e non mi riferisco a Cinquanta sfumature di grigio. 

Mi piace molto guardare film perché, oltre al fatto che mi ritrovo in tutti i personaggi complessati dallo sviluppo drammatico, mi succede spesso di concentrarmi sulle cose che ho trovato belle, più che sui difetti. Nella vita non mi accade mai, nel senso che se un avvenimento comporta quasi tutte conseguenze eccezionali io mi concentrerò sull’unica impercettibile sfumatura negativa della situazione. Ma al cinema no, al cinema se c’è anche solo una scena o una battuta di dialogo che mi fa vibrare qualcosa dentro, allora so che i soldi del biglietto sono stati ben spesi.
Comunque, qualche mese fa ho accettato di fare il social media manager per un cortometraggio di alcuni amici, che in parole povere significa che dovevo gestire la pagina facebook. L’esperienza è stata dura ma interessante, e mi ha dato la possibilità di essere sul set nei giorni delle riprese. 
Per questo posso affermare che il cinema è un mondo (meraviglioso ma anche) mostruoso: dovreste vedere la quantità di persone che lavorano insieme per girare una scena. Sono tantissimi, tra attori e tecnici, e tutti quanti che vogliono giustamente avere il loro riconoscimento, e tutti quanti che vogliono fare i registi. Persino io che mi trovavo lì solo per documentare il backstage avrei voluto mandare in culo qualcuno, così, giusto per sentirmi più integrato nel gruppo.
Tra i vari professionisti c’era una donna che non credo di voler nominare, nel caso le venisse in mente di cercarsi su Google, trovare il mio blog e conseguentemente assoldare un sicario per uccidermi nel sonno. Il suo ruolo era quello di casting director, cioè doveva dirigere gli attori bambini del corto. Niente da dire, era molto brava nel suo lavoro. La sua tecnica principale, tuttavia, consisteva nel pronunciare le parole molto lentamente a un tono di voce sorprendentemente alto, un po’ come faccio io quando spiego ai miei nonni come funziona il telecomando, o come fa mia mamma nelle chiamate interurbane.
Ma la cosa che mi è rimasta più impressa della casting director era il modo con cui chiedeva ai bambini di assumere un atteggiamento gioioso. Dovete sapere che la scena prevedeva che dei marmocchi vestiti da scout facessero il saluto dei lupetti con un grandissimo sorriso stampato in faccia; il problema era che a Gennaio, sulle colline torinesi, la temperatura non era esattamente confortevole, pertanto questi poveri figlioli tremavano come gli orfani sfortunati dei romanzi di Charles Dickens.
E la casting director, una volta dato il ciak, urlava loro di essere felici. «Felicità! Felicità!!!» ripeteva prima che partisse l’azione, con gli occhi iniettati di sangue e la voce che assumeva una lieve inflessione germanica. «Felicità vera!» li ammoniva. Eh sì, perché non bastava fare finta di essere felici. Si doveva fare finta di essere felici in maniera autentica. «Martina, cos’è quella smorfia? Superfelicità! Dennis, Dennis, insomma, pensa a qualcosa di bello! Martina, ridi, RIDI, Martina vuoi ridere, eccheccavolo?!»
Stacco. Cambio scena.
In questi giorni sto leggendo un libro di Kurt Vonnegut. Me l’hanno regalato Ciccio, il mio amico che scambia il sale con lo zucchero; Pippi, la mia amica che scambia la salvia per la marijuana (e non vi dico quanto è saporita la sua variante del pollo con patate); e Davide, che è il mio amico da cui è bello andare a cena.
Il libro si chiama Quando siete felici, fateci caso e sono andati a comprarlo Ciccio e Pippi. In questo momento sto ridendo perché sembra una storia di Topolino. Dicevo: il libro si chiama Quando siete felici, fateci caso e sono andati a comprarlo Ciccio e Pippi. Posso distintamente immaginarli alla cassa della libreria, che non si ricordano il titolo.
– Scusi, stiamo cercando un libro.
– Certo, il titolo?
– Mmm, credo Non siate infelici, non è il caso
– Non è in catalogo, siete sicuri che sia questo il titolo?
– Provi con Quando siete felici, siete felici
– Niente.
Se siete felici è solo un caso?
– No
Siate felici ma mai a caso
– Nemmeno
Il caso vuole che siate infelici
– Nisba
– Pippi, lasciamo perdere, prendiamogli la biografia di Beyoncé che è contento uguale.
– In copertina c’è il disegno di un gelato…
– Ah, ma certo: Quando siete felici, fateci caso, di Vonnegut!
– Sì ecco!
Comunque, lo sto leggendo. È una raccolta di discorsi motivazionali che Vonnegut ha letto alla cerimonia di laurea di alcune università americane. C’è un episodio narrato in molti discorsi, e riguarda Alex, lo zio dello scrittore, che nei momenti di più assurda semplicità, come quando era sotto l’ombra di un albero a bere limonata insieme alle persone a cui voleva bene, interrompeva la loro conversazione per dire: «Cosa c’è di più bello di questo?»
La differenza tra me e lo zio Alex è che io ho bisogno di una casting director che mi ricordi che sono felice, felice davvero.

Alla ricerca della lampadina perduta*

* l’autore di questo post precisa che il titolo 
non è una citazione di Proust né un omaggio a Indiana Jones 
bensì a Zio Paperone. Gran ciaone a tutti.
I raggi del sole filtrano dalla finestra e io mi sveglio consapevole che sarà una di quelle giornate meravigliose e ingenue come il look di Paola e Chiara prima della svolta porno.
Invece, poiché niente è come sembra e non si giudica un libro dalla copertina specialmente se è della Gamberale, durante la mattinata si fulmina una lampadina, e questo rappresenta un evento traumatico ai livelli della diffusione di Dubsmash, e per diversi motivi. Innanzitutto perché la lampadina è un oggetto carico di aspetti simbolici come l’idea, la luce, la scoperta, il genio, l’aiutante di Archimede, e tutto questo la rende l’immagine più allegorica del mondo dopo Gesù in croce, ma se fossero esistite le lampadine nel Rinascimento probabilmente gli artisti non avrebbero perso troppo tempo con tutti quei Cristi e si sarebbero dedicati a raffigurazioni più significative, tipo la passione della lampadina, l’annunciazione della lampadina, la resurrezione della lampadina e così via. In secondo luogo, la lampadina in questione è quella delle scale, e siccome sono povero è anche l’unica fonte di luce di camera mia – se escludiamo la luna piena e gli orsi polari sullo screensaver del mio computer.
Insomma, devo procurarmi una nuova lampadina.

La missione si preannuncia semplice. Mi era già successo di dover sostituire una lampadina, e in quell’occasione l’avevo comprata in un negozio vicino a casa. Mi ero trasferito a Torino da poco, e fu una delle prime volte che ebbi a che fare con la disponibilità dei piemontesi. Tutta questa storia dei “falsi cortesi” è una bufala, secondo me. Mi dirigo verso il negozio, ma lo trovo chiuso. Per sempre. I dolci elettricisti piemontesi di fiducia sono andati in fallimento. Mi raccolgo in un minuto di dispiacere e considerazioni generiche sulla crisi, poi l’idea di dover affrontare le tenebre per raggiungere la mia camera prende il sopravvento, e decido di continuare la ricerca.
Passo al setaccio tutte le vie del mio quartiere, che pullula di gallerie d’arte e ristoranti vegani ma nessun venditore di lampadine. Niente. È giunto il doloroso momento di chiedere informazioni. Entro in una lavanderia, facendo subito una bellissima figura perché per via della differenza termica mi si appannano gli occhiali all’istante, e da quel momento in poi procedo a tentoni.
«Una lampadina?» mi risponde una voce maschile vibrante di esperienza in elettronica. «Prova al Carrefour, prosegui dritto per di qua e lo trovi al primo incrocio.» 
Il nonnino ha ragione: nel piccolo supermercato hanno una parete che espone pile, orsetti luminosi e lampadine. Il problema è che a me ne serve una di quelle sottili e allungate, credo si chiamino alogene, e non penso che il Carrefour sia abbastanza fornito.
«Mi scusi.»
«Mi dica.»
«Stavo cercando una lampadina.»
«Guardi, lì, tra le pile e gli orsetti luminosi.»
«Sì, ho visto, ma me ne serviva una di quelle sottili e allungate.»
«Uno starlight?»
«No, no, credo si chiamino “alogene”.»
«Oh, no, non ne abbiamo. Abbiamo gli orsetti.»
Esco dal discount rimuginando che la Lidl non mi avrebbe deluso, e faccio ritorno a casa. Per uno scrupolo improvviso e fortuito, prima di salire mi fermo al tabacchino che sta a due passi dall’ingresso del palazzo. Dietro al bancone non c’è la solita donnona che mi scambia sempre per il figlio dell’avvocato e mi chiede come procedono le mie gare di ballo, bensì il marito, un ometto baffuto che dall’odore di nicotina lo direi capace di attaccarti la polmonite per osmosi.
«Buonasera.»
«Oh, ma buonasera!»
«Scusi, vorrei solo un’informazione. Dove posso comprare una lampadina, in zona?»
«Hai provato al Carrefour?»
«Sì, niente»
«Uhm» il tabaccaio tabagista ci pensa su «Sai dove? Prova dalla signora che vende la frutta, giù per questa via. Suo figlio fa l’elettricista e ci sta che abbia qualcosa in negozio.»
«Provo. Grazie mille!»
«Di nulla! E in bocca al lupo per i tuoi balletti.»
Se mai in futuro qualcuno dovesse domandarmi quale è per me la rappresentazione del miracolo, senza alcuna esitazione io ripenserei al momento in cui, all’interno di un anacronistico negozio di frutta e verdura di via Giolitti, tra ceste di pomodori e peperoni, in mezzo a fasci di sedani e cassette di enormi arance, con tutto un universo di furia e surgelati all’esterno, dentro quella parentesi di tenerezza, mi trovo davanti a donna Maria, perfetta nella vestaglia color ceruleo coi suoi capelli grigi raccolti sulla nuca, che mi porge una lampadina.
L’idea è che le cose non stanno sempre al posto giusto.

La classe di Paperoga

Dovreste smetterla di chiamarvi tutti Matteo. Dico sul serio, per una questione di memorizzazione digitale. Ho la rubrica del cellulare piena di Mattei, per trovare quello che voglio ho bisogno di scrollare sei o sette volte e di mettere anche i cognomi e a volte perfino qualche caratteristica tipo Matteo Teatro o Matteo Pisa o Matteo Addominali A Tartaruga Richiamalo.
A dir la verità, dovremmo smetterla anche di chiamarci Alessandro. Nella rubrica ho undici tra Alessandri e Alessandre, contro sette miseri Mattei. Poi ho venti Andrea, nove Lorenzi, dieci Marchi e otto Stefani. Okay, so che ora sembro una lurida sgualdrina, ma no, ecco, è che conosco tanta gente. Ho anche sette Chiare e quattordici Giulie, se è per quello. In conclusione, dovremmo smetterla di chiamarci Matteo, Alessandro, Alessandra, Andrea, Lorenzo, Marco, Stefano, Chiara e Giulia. 
Tutto questo eccessivo preambolo per dire che nell’aneddoto che vi racconterò oggi comparirà un personaggio che chiameremo Matteo, che nel caso specifico è un mio amico che ieri mattina sarebbe dovuto passare a trovarmi )
Quando suonano alla porta io non ho gli occhiali, mi affretto verso l’ingresso per non fare attendere l’ospite, guardo verso il cancellino, non riesco a vedere niente ma do per scontato che sia Matteo quindi esordisco con un caloroso CIAO MATTE! e invece era il postino
Sapete, l’essenziale è invisibile agli occhi, e non si vede bene che col cuore, ma nel dubbio un paio di lenti aiutano
O forse no. Negli ultimi cinque giorni ho fatto una corposa serie di pasticci che non avrei combinato se non fossi geneticamente predisposto per le situazioni imbarazzanti. 
– ho bruciato dei wurstel
– ho fatto finire una fetta di pomodoro nel bicchiere di un’amica mentre spostavo un vassoio
– ho macchiato un’altra mia amica mentre tagliavo una tartina (ed era la stessa cena)
– ho involontariamente spinto una mia amica verso un crudele wrestler vestito da ballerino di tango
– ho scontrato una signora su una sedia a rotelle che comunque è ancora viva
– ho fatto cadere per terra il pacco dei rigatoni aperto con la conseguenza che tutti i fischiotti si sono frantumati
– ho fatto cadere anche la pasta per la pizza
– la pasta della pizza rimasta si è tutta appiccicata alle mie mani, al ripiano di marmo e al mattarello (“ma è per via dell’umidità!” ha cercato di consolarmi il mio amico Ciuffo vedendomi sull’orlo di una crisi di nervi, ma la verità è che avevo scordato di mettere la farina)
E mi sembra basta.
A volte vorrei essere figo e avere grazia, eleganza e portamento. Stare dritto con la schiena, non inciampare mentre cammino, saper indossare una cravatta, non impappinarmi nei discorsi e questo genere di cose (potrei continuare l’elenco ma poi sembrerebbe importarmene più del necessario). Invece io ho la classe di Paperoga, e tutto sommato mi sta bene così. 
Mi fermerò da te qualche giorno – STOP
T’insegnerò un nuovo sistema di vita – STOP
– prima frase attribuita a Paperoga, 1964

Aggiornamenti vari senza titolo simpatico

Prova. Prova.  Okay, funziona. Sto scrivendo dalla partizione Ubuntu del mio pc. Ubuntu è un sistema operativo, tipo Windows. La differenza principale tra Windows e Ubuntu è che su Ubuntu non so come si fanno le e maiuscole accentate, e ciò mi impedisce dall’iniziare una frase con la e maiuscola accentata in questo post.
Sto scrivendo da Ubuntu perché ho preso un virus. Stavo guardando un film in streaming, cosa che non faccio assolutamente mai (MA NON DISCRIMINO CHI LO FA), e tra l’altro era un film bellissimo e cioè Burton Fink dei fratelli Coen, guardatelo se avete tempo ma magari non in streaming non tanto per l’illegalità della cosa quanto per il fatto che poi ci prendete i virus e poi non potete più accedere ai vostri preziosissimi dati e siete costretti a farvi venire l’esaurimento nervoso e le lacrime agli occhi e un sacco di altri connotati facciali drammatici nel cercare invano di sistemare tutto. 
Tutto questo è successo Venerdì scorso, che ho dunque eletto come il giorno della settimana che odio (MA NON DISCRIMINO CHI LO AMA). Cioè, altro che Thanks God It’s Friday. Okay che il Venerdì esce Un po’ Pop, la mia rubrica di posta immaginaria che tengo su Maintenant Mensile, che bello fare marchette così, ma non è per nulla piacevole prendere un virus. Dico tutto questo perché mi rendo conto di essere stato molto poco presente ultimamente, ma adesso vorrei ricominciare a produrre. Ho un postribolo di idee. Postribolo è la parola del mese, insieme a Top Favola, che mi comunicano essere un complimento molto utilizzato nel mondo gay milanese (NON DISCRIMINO NEMMENO I GAY).
Dopo il venerdì nero, mi sono successe un po’ di cose molto carine, che vado a elencare perché sennò mi dite che parlo solo di suicidio, droghe e Spice Girls – curioso trinomio che spiegherebbe tante cose di me e di mia mamma. (A PROPOSITO, NON DISCRIMINO I SUICIDI, I DROGATI E NEPPURE LE SPICE GIRLS NONOSTANTE VICTORIA FACCIA DI TUTTO PER RENDERSI DETESTABILE).
Le cose belle che mi sono successe questa settimana da Venerdì in poi sono:
– due miei migliori amici venuti a trovarmi a Torino
– tre bottiglie di vino rosso
– un amico che mi ha regalato un barattolino di pesto di pistacchi, che è la mia nuova passione, e quando parlo di passione intendo proprio un sentimento amoroso e a tratti erotico
– uno dei miei migliori amici che ha vinto un premio per aver scritto una meravigliosa drammaturgia
– scoprire che esiste una radio che trasmette solo Beatles
– una persona a cui voglio tanto bene sta un pochino meglio e la andrò a trovare presto
– riuscire ad arrivare in biblioteca un secondo prima dell’inizio dell’uragano (NON DISCRIMINO GLI URAGANI)
– sapere che Alice Rohrwacher, che ha fatto la mia stessa scuola, ha vinto il Grand Prix al festival di Cannes
– la proprietaria di casa che ha promesso di cambiarci la cucina sotto hitleriana minaccia del mio coinquilino mezzo tedesco (MA NON DISCRIMINO I TEDESCHI ANZI SONO MOLTO SIMPA)
– un amico che è tornato in terra natìa ma non si dimentica di mandarmi note vocali contenenti versi strani e frasi in dialetto siciliano
– riportare un portafogli al proprietario senza rubare i centoquarantacinque euro contenuti al suo interno e ricevere una bella mancia (NON DISCRIMINO GLI ONESTI)
– per puro spirito culinario e scientifico ho sperimentato la pomodonara (marchio registrato da me), cioè la carbonara coi pomodorini al posto della pancetta, e ho scoperto che è praticamente un orgasmo
– aver preso con filosofia e spiccata ironia quando mi hanno detto di essere uno che discrimina le categorie umane.

Some day somebody’s gonna make you want to turn around and say goodbye
Until then baby are you going to let them hold you down and make you cry
Don’t you know? Don’t you know things can change
Things’ll go your way if you hold on for one more day

(se questo post inspiegabilmente vi dovesse suggerire vignette o disegnini, mandatemeli che li posto molto volentieri!)

Va tutto bene

Va tutto bene. A parte che frequentare una scuola di scrittura a Torino è più discriminante che essere gay o prendere il kebab senza salse (è che non mi piace il piccante!). È venuta una ragazza a vedere la stanza in affitto, ed è andata più o meno così:
– Sì, e insomma il prezzo è questo, la vista non è male, i mobili che vedi li puoi tenere, e…
– Mi sembra buona. E tu che fai? Studi?
– Sì, faccio una scuola di scrittura
– AH. – e già potevo vederle le labbra che le si incurvavano sprezzanti, e il sopracciglio inarcarsi con scetticismo, e tutto nel suo volto diceva che sono un figlio di papà straricco che gioca a fare l’intellettuale e infatti vado avanti nutrendomi di pasta Combino della Lidl e ho un blog in cui idolatro Geri Halliwell. Insomma, non l’ho presa. 
Questa cosa che dovevamo scegliere il nuovo coinquilino mi ha mandato fuori di testa. Voi non avete idea di quanto sia difficile trovare una persona pseudo-normale con cui convivere. È una bella rottura, gente, ma d’altra parte non puoi rischiare che la padrona di casa scelga al posto tuo, mandandoti magari un camionista puttaniere che rutta e grugnisce e piscia sui muri.
E così va tutto bene, ma c’è stata questa ricerca per nulla facile. Stephan, il mio coinquilino che si autodefinisce tedesco e biondo – anche se è moro e di Bolzano, Dio, mi sembra di vivere con l’equivalente alto atesino di Micheal Jackson – ha voluto aprire dei casting che nemmeno a X Factor. Lui ovviamente faceva la parte dell’algido giudice cattivo, tipo Bastianich. Io ero un incrocio idiota, una via di mezzo tra Arisa e la Ventura.
Ogni volta che qualcuno usciva dopo aver visto l’appartamento, lui scuoteva la testa: “Per me è no”. Il mio esaurimento nervoso aveva raggiunto un livello tale che mi sarebbe andato bene perfino il camionista di cui sopra, e infatti speravo che Stephan approvasse l’osteopata con evidenti disturbi psichiatrici che si era mostrato interessato, ma niente.
Va tutto bene, e infatti abbiamo trovato una ragazza che sembra possedere un potenziale di squilibrio sufficiente a poter vivere con noi. Fa praticamente tutto, tra cui la trapezista. Ora, capite bene che avere a che fare con una circense non provvista dei tratti fenotipici di Moira Orfei è stata una rivelazione scioccante per il mio immaginario stereotipato del mondo. A proposito, la raggiungo in cucina, ché adesso è lì a prepararsi una zuppa. È l’unica cosa che mangia. Io la stimo tantissimo.
Va tutto bene.

Cose insolite a cui la gente non crede se gliele racconto

– Pronto?
– Pronto ciao
– Ciao
– Scusa l’ora, mi hanno dato il tuo numero così ho provato a chiamare
– Sì
– Mi hanno detto che tu fai i siti per internet, è vero?
– Ah! Sì, è vero
– Ecco, io avrei bisogno di un sito di webcam, tu sei capace?
– Sì, be’, in che senso di webcam?
– Un sito con le webcam, dico, tu sei capace?
– Cioè: lei vende webcam?
– (sospira, come a dire che non capisco un tubo)
– Non capisco, mi scusi
– Guarda che è una cosa legale, possiamo parlarne al telefono
– Certo, ma quello che mi richiede è un sito commerciale?
– Eeehm, in un certo senso…
– Ma quindi lei non vende webcam
– Allora praticamente ci sono due eeeehm due mie amiche che sono eeeehm disposte a spogliarsi davanti alle webcam allora io le riprendo così praticamente la gente che le guarda eeeehm tu ne sei capace?

Tempo di buoni propositi

Ieri ero in biblioteca col mio amico U, quello che è andato a studiare in Svezia, e guardando i suoi appunti pieni di grafici e variabili ho pensato a quanto era diversa la mia vita un anno fa, quando anch’io ero chino su quaderni pieni di codice e non sulle novelle del Decameron. 
Pensavo, poi, a quale potrebbe essere il mio buon proposito per il 2014. Sapete, è tempo di buoni propositi. Non che ci creda particolarmente, ma sono quelle cose che almeno per Gennaio funzionano: l’anno scorso mi ero riproposto di non correggere gli apostrofi e per qualche mese ho resistito.

Mi sono avvicinato alla macchinetta del caffè, parlando con U di malattie veneree – è tradizione che quando siamo in pausa affrontiamo questo genere di argomenti così mettiamo paura agli altri e rimaniamo soli per sempre come piace tanto la vita a noi. Ho selezionato il mio cappuccino con cinque pallini di zucchero (una mia amica non mi considera uomo per questa cosa: la zuccherofobia è la nuova frontiera della discriminazione). Il problema è che, tra una battuta sulla gonorrea e una sulla clamidia, ho premuto il tasto finale troppo tardi, e i pallini di zucchero si sono azzerati.

Mi sono voltato verso U con uno sguardo che lo implorava di mettere fine alle mie sofferenze.
– Ti prego, strangolami.
– Oh, Ale. È così: se aspetti troppo, la vita diventa più amara. Scusa, dovevi dirlo tu, vero?
Sì, avrei dovuto dirlo io, perché sono io quello che scova le conclusioni filosofiche nelle idiozie. A ogni modo, il mio proposito per il duemilaquattordici mi viene suggerito da un cappuccino non zuccherato.

Buon anno a tutti. E non aspettate troppo.

It’s funny how some distance makes everything seem small
And the fears that once controlled me can’t get to me at all
Up here in the cold thin air I finally can breathe
I know left a life behind but I’m to relieved to grieve

Let it go, let it go
Can’t hold you back anymore
Let it go, let it go,
Turn my back and slam the door

Il treno che passa da Magenta

Venerdì mattina ho preso il treno perché dovevo andare a Milano. Sapete, Milano, la città dove tutto è frenetico e la gente ti passa davanti anche sulle scale mobili di Bershka. Giuro che quando è successo ho iniziato a balbettare guardandomi intorno spaesato. “RILASSATEVI” gridavo malamente a cittadini casuali, quando mi sono ripreso. Ad ogni modo, per arrivare a Milano da Torino ho preso un Regionale Veloce (veloce, vabbè) che passa da Magenta.
Ora, alzi la mano chi sa che in Italia esiste Magenta: tutti ovviamente, ma non perché ci siete stati o perché sia una città particolarmente famosa, no. Vi ricordate di Magenta intanto perché ha il nome di un colore, ma soprattutto per la canzoncina dell’asilo celebre per il fantasioso uso di articoli determinativi e connettivi logici. “Era una sera battaglia di Magenta oh che piacere giocare ai cavalieri”. Siccome siamo fortunati e siccome Internet è uno strumento potenzialmente terrificante, c’è una simpatica ragazza che si è premurata di farne una performance su YouTube che vi raccomando:

Il consiglio è di guardarla quando non avete i vostri 
coinquilini in casa.  Potrebbe sembrargli strano, capite.
Ho passato tutto il viaggio in treno fino a Magenta un po’ preoccupato. La mia scuola è divisa in sei classi, e io sono finito in quella dove ho il timore che la cultura personale sia molto importante. Questa è ovviamente una cosa positiva, ma il fatto è che io sono -e lo dico vergognandomene- ignorante. Non leggo molto. Certo, potrei stare mezza giornata a esporvi la filosofia che c’è dietro all’ultimo album di Marina and the Diamonds, ma questa non è cultura classica.

Sono immerso in questi pensieri quando mi accorgo di essere arrivato a Magenta. Alzo la testa e mi guardo intorno. Davanti a me c’è una famiglia di sordomuti in piena crisi. Ti accorgi quando dei sordomuti stanno litigando perché stanno zitti, ma smanaccano convulsamente e hanno la faccia tutta contrariata. È un po’ come guardare Dragonball senza audio.

Alla mia destra c’è una vecchietta con un paio di fantastici stivali da pioggia e nessun dente. Accanto a lei un signore di quarant’anni che legge Geronimo Stilton e il galeone dei gatti pirati. No vabbè è il treno del disagio. Poi per forza uno è sfigato, me la passate per osmosi.

Riflettendoci meglio, ho capito che quel tipo, quello che legge Geronimo Stilton è un grande. Guardandolo, ho intuito che probabilmente è straniero. Magari non è più nel suo Paese e deve imparare una nuova lingua, e lo fa iniziando dai libri per bambini. O magari vuole insegnare a leggere al figlio, e prima di farlo deve fare esercizio. Quel tipo che legge Geronimo Stilton è un grande perché ci vuole tanta forza di volontà per migliorare. Più che il talento, più che l’intelligenza. Non ha perso tempo a pensare che non sa l’italiano: sta cercando di impararlo e basta.

La conclusione – esplicitata in perfetto stile Disney, non è che vi considero cretini, è che ho bisogno di metterla nero su bianco – è che una volta che ho preso atto della mia scarsa cultura, devo cercare di digievolvermi dallo stadio di capra e recuperare le tappe che mi mancano. I francesi hanno un’espressione che rende tantissimo, che è farsi il culo.

Così, apro lo zaino e tiro fuori Salinger e inizio a leggere.