La mia visione del mondo, raccontata tra parentesi.

Yes we can

( Il titolo di questo post è dedicato a Barack Obama, nella speranza che anche il mio piccolo contributo possa cambiare le sorti economiche degli Stati Uniti. Ma avete notato che i mercati si alzano e s’abbassano anche in base alle cazzate che dicono i politici? Se Obama fa il discorso alle sette e mezzo invece che alle otto New York perde meno punti, roba da matti! )
( Ricordo che gli Stati Uniti d’America hanno perso il grado di AAA. Sigla che io pensavo fosse usata solo per le pile mini stilo )
( Ora inizia il post, giuro eh )
Un mesetto fa si laureava il mio amico Lore, che poi è anche un mio collega e ovviamente il mio guru (non posso spiegarvi perché è il mio guru, perché non ricordo come mai avevo iniziato a chiamarlo così. Forse al tempo mi piaceva la parola). 
Oltre alle congratulazioni già espresse direttamente al bastardo in questione posso offenderlo quanto voglio tanto secondo i miei calcoli adesso è in vacanza in America e non mi leggerà, e se anche per caso venisse a scoprire di queste righe a lui dedicate penserà che le dico bonariamente, perché quel lurido stronzino sa che io sotto sotto gli voglio bene è stata un’occasione per riflettere sul mio futuro accademico.
Tutto è partito da una domanda estremamente fondamentale: come mi vestirò il giorno della mia laurea? Prima di poter pensare a una risposta, mi sono venute in mente diverse cose, che vado a riportare:
1) Perché preoccuparsi di come mi vestirò? In fondo, quando mi laureerò io, potrà benissimo esserci una cultura diversa, e magari la moda del tempo sarà andare a giro nudi.
2) Quando mi laureerò io, potrà essersi già spento il sole, e gli esseri umani superstiti per poter sopravvivere potranno essere costretti a vivere sottoterra, vicino al nucleo, e i vestiti non saranno molto importanti allora.
3) Quando mi laureerò io, non è impensabile che ogni forma di energia si sarà ormai estinta, quindi i computer non avranno più senso di esistere, quindi nemmeno l’Informatica avrà molto senso, e magari io sarò passato a studiare Scienze della Pace (molto più utile), o avrò lasciato l’università dedicandomi ad altro, come cucire palloni da calcio. Perché si sa che può succedere di tutto nel mondo, ma il calcio sarà sempre ottusamente seguito.
Ecco, ho passato tutto Luglio ad enucleare considerazioni di questo tipo. Tuttavia, poco fa mi sono trovato a fare la conta degli esami. Ebbene, è con sommo gaudio che annuncio che mi mancano sei esami alla laurea. 
Sei esami.
(minuto di silenzio, grazie)
Per carità, esami difficili, ma… sono sei!
Sei, six, seis, sechs, 六個!
Avete idea della forza psicologica di questo numero?! Voglio dire: sei esami! 
Meno dei sette nani!
Meno delle dieci ballerine del saloon!
Meno degli anni di Ruby! (credo)
Sono gasato a bestia. Sono avanti bao necci. Spacco tutto. Yo yo a bombazza fratello. Vedo la luce.
Spero solo che non siano gli abbaglianti di un tir contromano.

Sopravvivere

“E che c’è da fare? C’è da andare avanti, c’è da sopravvivere”
“Per forza” – silenzio, poi aggiunge – 
“Ma all’inizio non è che se ne abbia così tanta voglia, di sopravvivere”
Il tuo aereo precipita, oppure la tua nave subisce un naufragio. E ti ritrovi su un’isola deserta, con niente. E ti devi  procurare il cibo, l’acqua, un riparo. Ti devi difendere dalle belve feroci. Devi socializzare con qualcuno, quindi ti metti a parlare con una noce di cocco a cui avrai opportunamente disegnato gli occhi e la bocca.
Il tòpos dell’isola deserta lo odio. Per carità: molto pratico per ambientare romanzi e film d’avventura, ma un po’ troppo inflazionato. Come se fosse necessario un naufragio per dimostrare le tue capacità di sopravvivere.
Ci sono cose molto più difficili.
E parlo con la poca esperienza di un ventiduenne che sicuramente non è naufragato su un’isola deserta, né ha vissuto i peggiori traumi che la vita può gentilmente offrire.
Eppure ho la certezza che una mente debole e sensibile possa arrecare molto più dolore che le intemperie con cui deve confrontarsi un naufrago. Chi ha una mente debole e sensibile arriva a sperarlo, un naufragio. Dolore fisico, datemi del dolore fisico. Voglio un naufragio, o un masso di una tonnellata che mi precipiti addosso, o incontrare una ghenga di teppisti con delle mazze da baseball. Perché il dolore fisico è… fisico. E siamo inclini a pensare che prima o poi passerà, e che ci sono le medicine; e comunque la causa di un dolore fisico è fisica.
La sofferenza che ti viene da dentro non è localizzabile in qualche punto del corpo. Non esce sangue da tamponare. Non c’è una ferita a cui mettere i punti. È solo che è dentro, e basta.
La sofferenza che ti viene da dentro non è curabile con delle medicine. Non c’è una terapia. Puoi consultare tutti gli psi-cologi/-chiatri/-coterapeuti che ti pare, ma la cura è la più difficile che esista: te stesso. La cura non può venire dall’esterno. È invece questione di convinzione, di un po’ di fortuna e soprattutto di forza. E la forza non la vendono in pillole.
Non esiste lo sciroppo dello stare bene.
Non esiste lo sciroppo dello stare bene.
Non esiste lo sciroppo dello stare bene.
E lo posso scrivere tre volte essendone sicuro, perché io l’ho cercato questo sciroppo, e in varie forme. Magari potevo avere l’illusione di stare meglio per qualche ora, ma invece non era nemmeno una tregua. Non ci sono tregue, se non ti vuoi bene. In questo mondo sei da solo, e la prima cosa che devi imparare è badare a te stesso. Sopravvivere. Non è prevista ricompensa, solo la punizione in caso di fallimento. Non sono previsti aiuti esterni. 
Solo tu, e le tue unghie.
I’ve got all my life to live
I’ve got all my love to give
And I’ll survive
I will survive.

Una commedia lunga un anno

Era l’anno scorso, ed era Maggio. Quasi un anno fa, in pratica. Era un periodo un po’ particolare della mia vita ed era una Gianfranco.
[ Qui c’è bisogno di una parentesi, altrimenti temo che non si capisca bene la frase “era una Gianfranco”. Premetto che dopo questa parentesi potrei passare per psicopatico, ma tutto sommato non credo che ciò influisca molto sull’opinione che taluni hanno di me. Non che la cosa mi piaccia (solo i finti alternativi sono contenti nell’essere appellati come pazzi, e infatti si autodefiniscono così, lo scrivono su facebook, comprano magliette con scritto MAD GIRL o CRAZY BOY, e trovo la cosa molto irritante, ma sto divagando, riportiamoci all’argomento di questo post).
Dicevo: Gianfranco. È il nome che io e altre due persone a me care – che chiamerò con nomi di fantasia, per esempio Tiziano e Federica – diamo a quei momenti in cui ci incontriamo davanti a una birra o un Sexonthebeach e (s)parliamo di:
– “Tiz e il sesso debole mica tanto debole”
– “Fede e il sesso forte mica tanto forte”
– “Ale e le sue vicende nell’altro mondo” ]
Bene. Ora che sapete cos’è Gianfranco (anche internazionalizzato con JeanFrankie, e abbrevviato con JF), posso continuare. Ad uno di questi incontri, viene fuori che sarebbe bello mettere in scena Lunatika.

[ Sì, Lunatika. Con la kappa, sì. E come potete immaginare, adesso urge un’altra parentesi in cui spiego cosa diamine è Lunatika. Innanzitutto Lunatika è una commedia, ma soprattutto Lunatika è una commedia che è stata scritta durante un corso di scrittura drammaturgica che io ho frequentato insieme ai suddetti Tiz e Fede ed altre persone. Quando mi chiedono cosa sia Lunatika, rispondo che è una trasposizione in chiave moderna del Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare. 

“Trasposizione in chiave moderna” è una frase molto figa che sta a significare che la storia è pari pari quella del Sogno, ma 1) è ambientata in una discoteca, 2) i personaggi dicono parolacce. ]

Adesso sapete anche cos’è Lunatika. Ritorniamo alla sera di Maggio 2010.
Sarebbe bello mettere in scena Lunatika
Sì ci stavo pensando
Guardate che è un testo molto forte
Io ho anche pensato anche a chi potrebbe fare i personaggi
Certo XXXX sarebbe perfetto per Personaggio Y
E XXXX allora?
È praticamente uguale a Personaggio Z!
Ale, perché non fai la regia con me?
Ta da da daaaan. Io avevo scoperto il mondo del teatro da… una cosa come sette mesi. In questa sede è troppo noioso stare a spiegare come mai ho accettato, ma fondamentalmente è perché Lunatika era un progetto iniziato al corso di scrittura e mi sarebbe piaciuto completarlo con la vera e propria messa in scena.
Durante l’estate io e Tiziano iniziamo a pensare a come potrebbe venire, reclutiamo attori, ipotizziamo possibili musiche di sottofondo. Alla fine buttiamo giù un piano di regia (così l’ha chiamato, il regista esperto).
Fare il regista mi ha lasciato un sacco di sensazioni interessanti. E non è solo il fatto di potersi far bello nel dire che EHI, io sono il regista. È qualcosa a cui non ero abituato. Spesso hai la convinzione di sapere come dovrebbe essere fatta una certa cosa, e spesso quella cosa sarebbe davvero perfetta se la si facesse nel modo che dici tu. Ma spesso ti manca il coraggio, o la possibilità, o la forza di prenderti la responsabilità di essere il capo. 
Ed ecco cosa ho fatto in questi mesi: il capo. Nononononono! Non è affatto bello fare il capo. Hai mille responsabilità, devi motivare ogni tua scelta anche se le tue scelte si basano solo su sensazioni, devi lottare per dimostrare che la tua idea è giusta, devi tenere unito il gruppo, devi organizzare il lavoro di tutti e lavorare per chi non lavora, devi purtroppo incazzarti per sollecitare chi non ti rispetta o non rispetta gli altri, devi usare il tuo tempo libero per portare avanti il lavoro (prove, scenografie, musiche, costumi, luci, locandina, promozione, …). 
È stressante. Eseguire è molto, molto più facile che pensare. Tiz mi aveva avvisato, ovviamente. E io ho pensato di lasciare la regia una cosa come… 10 volte. Al mese. E non sto esagerando.
Solo ora, a 18 giorni dalla prima, vedo che non ho lavorato per nulla. Questo spettacolo ha una forma, e questo spettacolo ha la forma che IO gli ho voluto dare. Non chi ha eseguito, ma chi ha pensato. Credo che Lunatika sia per me e Tiz una specie di figlio. Nel senso che, come si cresce un figlio, anche questo spettacolo è il risultato della nostra “educazione”. 
[ Faccio una parentesi su Tiz. Sì, lo so che faccio sempre parentesi, ma una in più che cosa cambia? Beh, Tiziano è stato fondamentale. Ovvio, per l’esperienza che ha nel mondo del teatro. Ma soprattutto per il sostegno morale, che tradotto in linguaggio carino significa che è un mio amico. In quasi un anno di preparazione, praticamente ho visto più lui che i miei genitori. Senza contare che abbiamo avuto quasi sempre le stesse idee sulla commedia: i nostri cervelli sembravano in simbiosi, e qualche volta ho pensato che Terry e Maggie ci fanno una pippa – se escludiamo la questione del teletrasporto, ma ci stiamo lavorando. ]
E adesso? E adesso mancano diciotto giorni dalla prima.
Fede, per sms, qualche settimana fa:
“Manca un mese al 9.”
“Già.”
“Emozionato?”
“Sì. Perché anche il terrore è un’emozione.”
Ma alla fine credo in questo spettacolo. È roba mia, è una creazione modellata per come ho voluto io. E sinceramente – e peccando terribilmente di presunzione – non credo che potrà non piacermi. E ancora più sinceramente, e peccando ancora di più di presunzione, non credo che potrà non piacervi.
Lunatika è una storia. E ci sono tanti colori, tante musiche. Personaggi in cui ritrovarsi, alcuni da odiare e altri da amare. Fin qui tutto piuttosto banale, eppure io sono convinto di due cose. Uno, che non vi dimenticherete di Lunatika. E due, che Lunatika non è ciò che vi aspettate.

Manomasìmasumadai

Stamani ho ricevuto un sms che mi ha fatto pensare a una canzone. Una canzone epica, che secondo me e secondo tutti i critici di musica di nicchia non ha ricevuto un riconoscimento adeguato dalla comunità pop. Sì, sto parlando di Ma dai di Andrea Cardillo (e chi è?) e Valeria Non-mi-ricordo-il-cognome.
Stamani ho riflettuto molto, e sono arrivato alla conclusione che questa canzone ha due grandi meriti: il primo è quello di insegnare ai ragazzini che “su” non vuole l’accento. Okay? La u accentata è di “giù”, non di “su”. La seconda grande caratteristica è l’elevato coefficiente di nonsenso di questa canzone. Proprio di questo vorrei parlare in questo post. Tralasciando la struttura sintattica, concentriamoci sulla semantica del testo.

Ma no, ma si, ma su, ma dai 
Ma no, ma si, ma su, ma dai 
Ma no, ma si, ma su, ma dai 
Ma no, ma si, ma su, ma dai

(mh. E fin qui… Comunque su “sì” ci vorrebbe l’accento eh! Bimbi, prendete nota)

Mora con gli occhi di velluto 

(di velluto?!)

non l’avessi mai incontrata 
gambe più lunghe di un’autostrada ahi, che pugnalata! 

(Mi sono perso qualcosa: stavi parlando delle gambe e ti pugnalano?)

Donna più bella dell’amore promessa calda che viene e va 
Accidenti, peccato che non si lasci andare 
Accidenti, peccato che non si lasci amare

(Innanzitutto non si capisce dov’è finito il pugnalatore. Ma diamo fiducia al testo, magari ricompare più in là.
Immaginate come si deve essere sentito potente il Cardillo quando gli è venuta in mente la rima andare/amare!)



Ma no, ma si, ma su, ma dai 
Ma no, ma si, ma su, ma dai 
Ma no, ma si, ma su, ma dai 
Ma no, ma si, ma su, ma dai

(gli interventi della tipa sono sempre pieni di un’intensa carica espressiva)

Una valanga di messaggini dai, fai una telefonata!

(ma… E CHIAMALA TU!)

scrivimi quando ti vedo davvero non autofotografata 
Che rompimento la virtualità 

(Riflessione sulla società moderna schiava delle tecnologie. Quanto sei profondo Cardy!)

Ah, ma dice che verrà! 

(Ambiguità. Quanto sei ermetico Cardy!)

Vuoi vedere che questa volta si lascia andare 
Vuoi vedere che questa volta si potrà fare

(“Olé. N’artra rima. Ao, ma so’ propio mitico oh!”)

Ma no, ma si, ma su, ma dai 
Ma no, ma si, ma su, ma dai 
Ma no, ma si, ma su, ma dai 

Ma no, ma si, ma su, ma dai



S’era spogliata e si è rivestita accidenti che bastonata! 


(ma non c’hai raccontato la parte più divertente!!!)

Mi ha chiesto scusa ed è ritornata dice
non mi basta una serata, per me l’amore è tutta la vita, mi sembri uno che
prende e va …ma no, ma si, ma su, ma dai ma no, ma si, ma su, ma dai… 


(Attenti perché adesso si tocca l’apice del no sense. La musica mondiale non è mai arrivata a tanto)



E sono rimasto lì con gli addominali 
E sono rimasto lì con gli addominali 

(?????????????????????????????????????????????????????
?????????????????????????????????????????????????????
?????????????????????????????????????????????????????)


Ma no, ma si, ma su, ma dai 
Ma no, ma si, ma su, ma dai 
Ma no, ma si, ma su, ma dai 

Ma no, ma si, ma su, ma dai


Purtroppo donne, donne, donne 

(tududu, amiche di sempre…)



ragazze oppure nonne 

(Ecco, qui la rima ti poteva venire meglio…)

non possiamo fare a meno delle vostre gonne tutta la vita! 

(ORA SONO SENZA PAROLE.)

Ma no, ma si, ma su, ma dai 
Ma no, ma si, ma su, ma dai 
Ma no, ma si, ma su, ma dai 

Ma no, ma si, ma su, ma dai


Tutta la vita! Purtroppo donne, donne, donne 
ragazze oppure nonne
non possiamo fare a meno delle vostre gonne tutta la vita! 


(Non ci credo. L’ha detto di nuovo!)

Ma no, ma si, ma su, ma dai 
Ma no, ma si, ma su, ma dai 
Ma no, ma si, ma su, ma dai 

Ma no, ma si, ma su, ma dai


Tutta la vita!

(E spegnendo lo stereo, non ci rimane che pensare che la pugnalata lo abbia fatto morire dissanguato)

Le donne lo sanno. E gli uomini?

Volevo scrivere qualche parola a proposito della manifestazione nazionale che le donne italiane faranno contro l’immagine della donna mostrata in questi giorni: una donna oggetto, una donna che non si fa problemi a vendere il proprio corpo e la propria dignità in cambio di soldi, o un appartamento, o una poltrona politica.
Non mi viene da criticare le donne per questa manifestazione: penso, anzi, che l’orgoglio femminile esista davvero, ed è giusto ostentarlo almeno in questa occasione. Trovo, tuttavia, che da parte di una donna, la sua partecipazione alla manifestazione sia abbastanza inutile: una donna sa se sarà mai disposta a fare la puttana; una donna sa se mentirà mai per coprire le porcherie di un uomo politico; una donna sa se il suo sogno è davvero quello di fare la velina. Una donna che sa queste cose non avrebbe bisogno di manifestarle agli altri.
Ma c’è un’altra categoria per la quale questa manifestazione avrebbe veramente senso.
Gli uomini.
Sono gli uomini che dovrebbero indignarsi, incazzarsi, VERGOGNARSI per il modo con cui altri uomini trattano le donne. È l’orgoglio maschile che dovrebbe esplodere in piazza. Sono gli uomini che Domenica vorrei sentire. Sono le voci gravi quelle che dovrebbero levarsi, al grido di “NOI LE DONNE NON LE PAGHIAMO”.
Perché, in questa situazione, il sesso la cui immagine ne esce vergognosamente colpita non è quello femminile, che pur si prende la considerazione di donna-oggetto; bensì quella dell’uomo, che sembra che oggi – nel DUEMILAUNDICI, almeno ottomila anni dopo la nascita delle prime civiltà – consideri la donna come sua inferiore.
Se è vero che viviamo in una società in cui essere maschi rende la vita un po’ più facile (almeno passatemi questo, se proprio non volete ammettere che la società è maschilista), allora è l’uomo – il sesso, in questo senso, privilegiato – che dovrebbe fare il primo passo e manifestare.
L’uomo vero è quello che dovrebbe scendere il piazza. Perché l’uomo vero non usa le donne, e non le paga; l’uomo vero è colui che spera in una società in cui non sia così matematico che lui lavora e lei lava; l’uomo vero è quello che si sente ferito per come persone del suo stesso sesso hanno trattato le donne in questi giorni.
Domenica 13 Febbraio IO sarò nella mia città a manifestare. Perché mi vergogno. Perché trovo che sia importante. E perché vorrei rassicurare le donne che esiste ancora qualche uomo per cui l’equazione FEMMINA UGUALE PUTTANA è sicuramente falsa.

Appello agli inventori, ai medici e agli dei

Se una delle tre categorie vorrà mai:
a) inventare un aggeggio che risucchi le paranoie dal cervello
b) trovare una cura per chi passa le Domeniche a farsi paranoie
c) togliere direttamente il concetto di paranoia dal mondo delle idee
io gliene sarò eternamente grato.

Grazie.

Pensieri riguardo al pensare

[ Non so per quale motivo ma avevo voglia di cominciare questo mio pensiero parlando degli insiemi che sono elementi di sé stessi. Solo che non ricordo che nome hanno, quindi mi tocca rimediare scrivendo queste due righe in cui esprimo il mio disappunto per la memoria che mi ritrovo. Chiusa parentesi. ]
[ No, scusate, riapro la parentesi un secondo: se qualche mio lettore sa come si chiamano gli insiemi che sono elementi di sé stessi me lo scriva – esempio: l’insieme delle cose astratte è una cosa astratta per cui è elemento di sé stesso. Ecco, ora chiudo davvero la parentesi. ]
Penso che il pensare si presti ad essere applicato sul pensare stesso. Si può pensare riguardo ai pensieri. Pensate: ci sono anche numerose discipline che esprimono il pensiero dei pensatori, e ne esistono altre che pensano di poter spiegare il pensiero. Ma quello che mi sono ritrovato a pensare oggi riguarda qualcosa di molto più terreno. E cioè: è davvero utile pensare al pensare?
Penso di dover spiegare meglio il mio pensiero, altrimenti penserete che sia impazzito. Spesso divido le persone in due categorie: quelle di cui mi interessa ciò che pensano di me e quelle di cui non mi interessa. Ora, per gli appartenenti al secondo tipo non sussiste il problema, perché io mi comporterò sempre nel modo in cui deciderò, senza farmi influenzare. Ma per le persone del primo tipo? Penso che a volte io lasci l’autoimposizione di essere me stesso e mi comporti diversamente, a seconda di ciò che penso che l’interlocutore pensi di me.
E questo può essere normale, e persino utile, considerando il fatto che di solito riesco a capire ciò che gli altri pensano di me (sempre cose squisite, chiaramente). Ma ci sono rari casi in cui l’accesso alla mente altrui mi è negata. E allora? E allora combino dei gran casini. La conclusione – frettolosa, perché ho un po’ sonno e voglio andare a nanna – è che non solo pensare fa male (concetto al quale eravamo arrivati tutti da tempo), ma anche pensare al pensare fa male (e matematicamente fa… “male al quadrato”).
Ora, per rimediare a questo post noiosissimo ma che mi sentivo di scrivere, vi lascio una canzone del Genio. Mi sto appassionando a questo gruppo, non vorrei che facesse la fine dei Baustelle: essere tra i miei gruppi preferiti. Sarebbe terribile.

Oggi che la vita è tutta intatta
La tua pelle che era frotta
Come i cieli della sera
Mani al vento di chimera
Chiami a tutta voce ma senz’aria
Provi che la notte è solo boria
Tempo al tempo e madido di vento, pensi

Penso che tu non pensi

non mi guardi, 
non ti scuote mai niente, 
che l’inverno
le mie mani
è un’atmosfera indecente
che è importante se a pensare vengo dentro e tu pensa
pensi cosa tu pensando per lei pensa per me

Mentre la tua guancia era già asciutta
le tue mani la disfatta
delle lacrime al mattino
mentre dietro la tua porta
ti guardavo zitta ma senz’aria
siamo il contagocce della sera
cosa sia quel suono e cosa mai faremo

Ma è così
testa giu capelli volti a terra e sole non tremo
ma lui è folle noi sentieri nell’inverno
ma siamo corpi stiamo noi non stiamo tutta la vita 

a pensare cosa fare ma non fare, pensa a dimenticare.

io penso che tu non pensi

non mi guardi, 
non ti scuote mai niente, 
che l’inverno
le mie mani
è un’atmosfera indecente
che è importante se a pensare vengo dentro e tu pensa
pensi cosa tu pensando per lei pensa per me

La mia personale e discutibile opinione sulla terribile vicenda di Sarah Scazzi

C H I S S E N E F R E G A

La Regina Zabo

Ci siamo, ho capito cosa non quadra in lei. Era una creatura sensibile un tempo, la Regina Zabo, una ragazzina che soffriva dei mali dell’intera umanità. Un’adolescente tormentata o qualcosa del genere. Enigmatica portatrice del dolore di esistere. Quando il tormento è diventato un calvario, e dopo innumerevoli esitazioni, è andata a bussare alla porta dello strizzacervelli alla moda. Quello, l’Ascoltatore, ha subito capito che era la troppa umanità a disturbare quella bambina vispa, e pazientemente, lettino dopo lettino, gliel’ha estirpata fino all’ultima radice, e al suo posto ha impiantato il sociale. Ecco cos’è, la Regina Zabo. Un’analisi riuscita: quando mangia, solo la testa ne trae profitto. Il resto non segue. Ne ho incontrati altri, si somigliano tutti.



Stasera ho finito di leggere Il paradiso degli orchi, di Daniel Pennac. Un capolavoro di ironia e originalità che consiglio veramente a chiunque voglia passare delle ore in compagnia di pagine leggere ma di qualità. 
Ho riportato la descrizione della Regina Zabo (che in realtà è solo il nomignolo che il protagonista affibbia alla spietata direttrice di una casa editrice) non perché fosse particolarmente importante; semmai perché ho avuto modo, proprio in questi giorni, di notare anch’io come chi ha la colpa di possedere troppa umanità, poi a poco a poco riesca a trasformarla in freddo raziocinio. E mi sono chiesto: è davvero l’unico modo per sopravvivere? In un mondo dove homo homini lupus sembra essere la regola più importante, l’unico modo di andare avanti per le persone che per loro natura non sarebbero sottomesse a tale massima è proprio adattarsi alla massima stessa.

Anch’io mi colloco tra coloro a cui non piace questo desiderio barra bisogno di sopraffazione. Non è presunzione. Ora come ora, la definirei più “sfortuna”. Ad ogni modo, se si può scegliere devo farlo adesso. Mi piegherò alla legge secondo cui vince più forte, o lotterò per trovare alternative più congeniali alla mia natura da ingenuo pacioccone? 

(questa cosa dell’ingenuo pacioccone dovrò poi ricordarmela prima di sfarmi di Long Island, però. Non sono molto credibile, con l’occhio penzolone. L’alcool mina alla mia reputazione!)

Sono una potenziale Regina Zabo. E la cosa mi terrorizza.