La mia visione del mondo, raccontata tra parentesi.

Kintsugi, ovvero l’arte di riparare le ferite con l’oro

Se vivessi in Oriente probabilmente sarei una persona diversa. E non intendo soltanto che avrei l’abitudine di soffiarmi il naso con la mano o di mangiare seduto per terra. E nemmeno che Grindr sarebbe una grande griglia di facce tutte uguali con gli occhi a mandorla – a proposito, avete mai provato ad aprire Grindr a Prato? Deve essere estraniante.
I giapponesi hanno pensato a questa cosa, il kintsugi, che funziona in questo modo: sei lì che stai spolverando, un po’ di fretta perché sta per cominciare la nuova puntata di Masterpiece e per qualche assurda ragione non puoi assolutamente perdertela. All’improvviso sbatti contro un mobile e un vaso cade per terra. Mica sarebbe un grave problema, insomma, quel vaso ti serviva solo per vomitarci dentro quando la vodka è troppa e il bagno è lontano. Ecco, se sei un giapponese non devi aver paura delle prossime sbronze. Tu raccogli tutti i cocci in cui si è spezzato il vaso, prendi dell’oro liquido o della lacca con della polvere d’argento, e inizi a ricomporre l’oggetto. È una specie di art attack per gente molto agiata. Quello che ottieni non è lo stesso vaso di prima. Ad accogliere il tuo prossimo rigetto ci sarà un vaso ricostruito e tenuto insieme da un collante prezioso. Non solo, ma nessun altro avrà quel vaso. Perché quando si è rotto, lo ha fatto in un modo che non è riproducibile da nessuno. Le linee che adesso abbelliscono il tuo oggetto sono state decise dal caso, e per questo sono uniche. Quello che avrai sarà un vaso più bello, più ricco, più forte; migliore, sia interiormente che nella superficie.
È che io a volte sono quel vaso, e non vivo in Giappone, e sono progettato in maniera tale che quando cado, e mi succede spesso, mi frantumo in una quantità di pezzi incalcolabile, e provo a rimettermi insieme alla bene e meglio ma crollo, ancora, mi sgretolo in frammenti sempre più simili alla polvere.

La controcorrenza*

* questa parola potrebbe non esistere.
Buonasera a tutti. 
Vorrei formulare un rapido ragionamento. Partiamo da un assunto che prima o poi dovremo ammettere tutti quanti, e ci conviene farlo prima che Selvaggia Lucarelli lo spacci per un’idea sua, e cioè: il web è costellato da brillantoni che provano una sorta di sadico piacere nell’essere controtendenti. Ora, non c’è niente di male nell’esserlo, a patto che non sia una cosa forzata, che sa un po’ di ridicolo. Questo avviene specialmente su Twitter, che è un social network dove non ha molto senso esistere se non si enucleano pensieri controcorrenti, ma questa piaga ormai coinvolge più o meno l’intera rete. 
Il motivo, forse, è che si tratta di una modalità abbastanza semplice per emergere: è sufficiente essere dotati di un certo quantitativo di originalità. Qui ci vorrebbe una sagace battutina, ma sto ascoltando i Meat Loaf e ho l’ansia, e quindi il mio potenziale comico si riduce. Cercate di seguirmi lo stesso. 
Bene. Ho avuto modo di analizzare le varie modalità con cui viene declinato questo essere controcorrenti per forza, e posso dire con una certa sicurezza che esse sono, in sostanza, due.
1) la controcorrenza à la Beautiful
È la controcorrenza potenzialmente infinita. Si parte da un concetto (che spesso è un fenomeno naturale, come la neve o un terremoto), e lo si nega. Poi lo si può nuovamente negare. E nessuno ci impedisce di negarlo di nuovo, creando una catena di battute e repliche che potrebbe non finire mai. È abbastanza intuitivo che sia ridicolo.
2) la controcorrenza in stile viene prima l’uovo o la gallina
È la controcorrenza ciclica. A differenza di quanto avviene con la prima tipologia, a un certo punto si deve arrestare in quanto converge su sé stessa. Anche qui partiamo da un concetto, che viene prontamente negato dal desideroso-di-diversità di turno. Non appena lo si nega, si ritorna al concetto iniziale, che tuttavia è troppo mainstream per essere accettato da uno che fa dell’originalità l’unica via di emersione. Il fallimento della strategia è abbastanza ovvio: se sei troppo hipster torni mainstream.

Drammatici parallelismi tra me, Cechov e Geri Halliwell

Quando gli altri credono in te più di quanto faccia tu stesso, c’è un problema.
Mi sono trasferito a Torino con la consapevolezza che avrei affrontato un mondo completamente nuovo. Non solo perché avrei dovuto imparare a cucinare, pulire casa, trovare il tempo per fare la spesa, lavare, stirare e capire che stirare non serve a niente, ma anche perché sarei stato “sconvolto dentro” (cit. Simona Ventura).
La prima cosa che mi ha destabilizzato è che qui nessuno sa come si usa il piuttosto che. Sono cose che ti feriscono, ragazzi. E con che convinzione lo mettono un po’ ovunque, come per ribadire che sì, sono nordici fieri di essere famosi per i leghisti, Mediaset e l’uso scorretto del piuttosto che. L’altra cosa che mi ha buttato giù è che qui hanno tutti qualcosa in più di me, e lo dico senza voler fare la vittima o che so io. Non che a Lucca non ci fosse gente in gamba, anzi. Però qui lo noto. Qui mi pesa.
Capite bene come tutto questo mi abbia dato numerosissimi spunti per annegare in nuovi bacini di malessere. A un certo punto, preso da un impeto di inconsueto pragmatismo, ho addirittura pensato di usare questa mia presunta inferiorità come stimolo per migliorare: che illuso. Non sono abbastanza sicuro di me per concretizzare una conclusione così intelligente. Non credo a sufficienza in quello che posso fare.

Poi ho pensato ad Anton Cechov. Quel poveruomo di Cechov, nel corso della sua esistenza, è stato preso a cinghiate da un padre bigotto e violento, ha contratto la tubercolosi, è stato criticato per svariate sue opere, ha trovato moglie molto tardi, è stato tradito dalla sopracitata moglie, è morto a quarantaquattro anni in preda ai deliri e chissà quante altre cose tragiche ha subito. Eppure ha continuato a scrivere senza lasciare che OH MA CHE PALLE QUESTA ANALOGIA È NOIOSISSIMA.
Poi ho pensato a Geri Halliwell. Ecco, meglio. Geri Halliwell è la mia preferita tra le Spice, tanto che qui lo dico e qui lo nego spesso nelle mie fantasie più recondite e virili sogno di interpretarla e inizio a lavorare come cantante in una cover band delle Spice Girls vi prego proponetemelo che accetto subito avremo anche i vestitini come loro con la bandiera inglese è geniale il mondo aspetta noi facciamolo. Ma torniamo alla metafora: dopo che il gruppo si è sciolto, Geri ha tentato più volte la carriera da solista. I risultati non sono stati soddisfacenti, all’inizio. Okay, i gay la adoravano, e probabilmente Aldo Busi la citò in una prefazione di qualche libro, ma le persone sane la prendevano in giro e le vendite andavano male. Lei mica si arrese, no, anche perché aveva bisogno di soldi per pagare le performance sessuali di tutti quei manzi – che poi compaiono nei suoi video perché prometteva loro fama in cambio di curiose acrobazie erotiche. Geri non rinunciò ai suoi sogni, per quanto il mondo musicale attorno a lei la stesse schiacciando. E vinse. E ora è il mio mito anni 90.

Geri è sicura di sé
Geri crede in sé stessa
Quando ho l’impressione di non valere più di un’unghia tutta caccolosa che ha appena scavato in un orecchio bello denso di cerume, io penso a Geri Halliwell, che è l’esempio vivente che non credere in sé stessi è una cazzata.

Pensieri sulla bontà

Mondo. Europa. Italia. Piemonte. Torino. Borgo Dora. Io che sto seduto su un panettone stradale osservando l’Arsenale della Pace, vestito come quando non me ne importa niente, al collo una macchina fotografica e in mano una Moleskine e una penna blu. Io che rifletto perché non ho altro da fare – la nostalgia genera mostri cerebrali, la nostalgia rende più forti, la pelle più dura, la nostalgia è una specie di Nivea al contrario. 
Rifletto su quanto sia cretino il detto Piemontese falso cortese. Sono pochi giorni che sono a Torino, e finora ho trovato solo persone genuine e gentili. Beh, a parte quando la bici si è infilata nei binari del tram facendomi perdere l’equilibrio e tutti gli automobilisti hanno iniziato a strombazzarmi contro, e in effetti è stato un gesto un po’ antipatico perché c’ero io a rischiare la morte, mica loro. A parte questo episodio, i contatti che ho avuto coi torinesi sono stati sorprendentemente calorosi. Sono stato all’Informagiovani dove ho trovato delle ragazze amichevoli che mi hanno aiutato a risolvere varie questioni e mi hanno anche fatto fare una carta per cui accumulo punti ogni attività a cui partecipo, così ora sono ansioso di partecipare alle attività più per i punti che per altro.
Tutto questo mi ha fatto pensare che la gentilezza è una cosa bella. Sempre più frequentemente percepisco l’acidità come valore positivo sempre più accettato; l’essere stronzi è uno dei pregi della società 2.0, e la gentilezza, le buone maniere e i sorrisi stanno diventando sinonimi di sconfitta. Forse esagero, ma ho come l’impressione che la saccenza, il cinismo e la cattiveria siano i nuovi requisiti per essere accettati come vincenti. 
E sto riflettendo su tutto questo quando, all’improvviso, Torino mi risponde.

Non puoi stare simpatico a tutti, e vi spiego perché

Che non potevo stare simpatico a tutti l’ho intuito durante le scuole medie, quando mi odiavano tutti.
Ne ho la conferma anche oggi, quando mi capita di odiare tutti. Ma forse quella è sociopatia, che è un po’ diverso, ha poco a che fare con la simpatia, è più una cosa genetica che riguarda il DNA, praticamente come avere i capelli biondi o essere omosessuale, solo che sui sociopatici non fanno campagna elettorale, e questo è un po’ ingiusto. In compenso ci fanno un sacco di serie tv.
A un primo superficiale ragionamento potrebbe sembrare che un mondo dove tutti si stanno simpatici sarebbe un mondo perfetto. Penseremmo subito a un ambiente assolutamente pacifico e sereno, in cui udiremmo tanti uccellini fare cip cip, tanti gattini fare miao miao, tante mucche fare mu mu, tanti pikachu fare pika pika, tutti sorridenti, liberi, spensierati, e neanche l’ombra di un attacco tuonoshock
Ma non è così. Un mondo dove tutti si stanno simpatici sarebbe terribile, e adesso mi accingo a spiegarvi i motivi.

1. L’odio è il motore dell’evoluzione. Se finora avete pensato che sia l’amore a creare la vita, beh, scordatevelo. È il conflitto che genera le situazioni non banali e che aggiunge il sale alle nostre giornate, ed è sempre il conflitto che ci permette di crescere e sviluppare un senso critico. Non so se purtroppo o se per fortuna, ma ci evolviamo grazie all’odio. Tutto il resto sono sentimenti accessori eventualmente gradevoli.

2. L’odio è il motore di ogni storia interessante. Poniamo che tutti ci stiamo simpatici – ipotesi plausibile se si assume perlomeno l’inesistenza di tutta la famiglia Ghedini – poniamo che ci stiamo tutti simpatici, dicevo: ecco, in questo caso non esisterebbe proprio il concetto di simpatia. Probabilmente non riusciremmo nemmeno a immaginarci come sarebbero la simpatia e l’antipatia. Ne consegue che ci sarebbero tutta una serie di sceneggiatori disoccupati, che non avrebbero potuto scrivere i film che si basano sulla contrapposizione tra personaggi buoni e cattivi, quindi praticamente tutti, e anche se questo ci avrebbe risparmiato dalle interpretazioni di Nicolas Cage sarebbe davvero brutto un mondo senza film.

3. L’odio è il motore dell’amore. Sì, beh, questa è un po’ tirata, lo ammetto, più che altro la volevo scrivere per il titoletto scenico “L’odio è il motore dell’amore”, WAAAA, che cose fighe e accattivanti che scrivo, mi compiaccio di me stesso. Ad ogni modo, quello che intendo è che non potrei capire chi amare se non sapessi chi odiare. Questo vale anche per quanto riguarda l’amicizia, le relazioni, gli interessi, le passioni, e vi prego fermatemi perché sto diventando melenso.

Infine, mi preme ricordarvi che l’odio è anche il motore di questo blog, che non esisterebbe se io non fossi così oscenamente antipatico da dover criticare e giudicare e sparare pretenziose sentenze su praticamente tutto, ma siccome poi mi leggete, se volete questo blog abbiamo bisogno di qualcuno che mi stia antipatico. A proposito, se volete starmi proprio simpaticissimi, ricordatevi che potete votarmi come Mister Internet ai #MIA13. Ecco, l’ho detto.

I tacchi

La mattina era iniziata in modo tranquillo. La luce del sole che filtrava dalle finestre, il cielo terso, io sdraiato sul mio letto a contemplare il soffitto, inebriato da dolci pensieri di morte, gli uccellini che si godevano la bella giornata cinguettando ed emettendo altri irritanti versacci, la poesia degli ultimi giorni d’estate.
E poi tutto cominciò a tremare. Subito le nuvole coprirono il sole, e l’oscurità avvolse la Terra. Gli uccellini non cinguettavano più, erano auspicabilmente tutti morti. Terrificanti rumori provenivano dal salotto. 
TONF, TONF, TONF, TONF. 
Si avvicinavano sempre più, mi sentivo perduto. 
TONF, TONF, TONF, TONF. 
Un gigante? 
Un Tirannosaurus Rex? 
Godzilla?
No: mia sorella sui tacchi.
Insomma, stamani mia sorella si è comprata il primo paio di tacchi, in occasione di un matrimonio. Siccome è particolarmente sagace, ha cominciato col tacco 12. Le conseguenze principali sono che quando si muove sembra un robot e poi è altissima. Se si tinge d’oro e inizia a parlare a scatti sarà tale e quale a C-3PO, o a Lady Gaga.
Non c’è niente da fare, donne: io vi stimo, nella maniera più assoluta. Non solo avete dovuto affrontare un mondo che vi ha sempre considerate inferiori, schiave, deboli, non solo avete dovuto combattere e state ancora combattendo le battaglie per il diritto di voto e le pari opportunità, non solo vi trovate in questo occidente tendenzialmente maschilista nel quale non è raro sentire perle d’intelligenza come “se si mette la minigonna poi è chiaro che la violentano”, non solo talvolta appare quasi scontato che siate voi a dovervi occupare della casa e della famiglia, non solo dovete fare i conti con altri individui di sesso femminile che cercano di boicottarvi dall’interno (penso alla Biancofiore, per dire), ma dovete pure subire tutte quelle mini-pressioni sociali della femminilità, quindi niente cellulite, niente rughe, essere sempre a posto, essere sempre un passo avanti, niente fidanzati troppo vecchi sennò ti vuoi approfittare della loro ricchezza, niente fidanzati troppo giovani sennò ti vuoi approfittare della loro bellezza, 
ma soprattutto dovete imparare ad andare sui tacchi.
Io vi amo comunque, sia sui tacchi che con le Converse, sia che ci teniate alla vostra femminilità sia che ve ne freghiate, sia quando vi imparanoiate sulla vostra apparenza sia quando decidete di sbattervene altamente.
“Pronto, nonna, ciao, come stai?
Sì, io bene, sai stamani 
mi sono comprata i tacchi.
Eh. Quando cammino insomma, 
se sto ferma bene.

Ma buon Ferragosto COSA?!

Trovo perfettamente naturale fare gli auguri di buon compleanno, così come quelli di buon anno nuovo, e quelli di una pronta guarigione. Passino anche gli auguri di Natale indistintamente dalla religione professata, ci mancherebbe, non stiamo a guardare il capello. Gli auguri di buona Pasqua già mi perplimono di più, mentre quelli di buon appetito, di buona giornata e di buona notte li considero normali saluti della quotidianità. 
Quest’anno però diverse persone mi hanno fatto gli auguri di un buon Ferragosto. Per carità, grazie, ed ehm, auguri anche a voi, un sacco proprio, ma mi sfugge il motivo di questi auguri. Okay, ho capito che Ferragosto è una festa religiosa, ma fino all’anno scorso era solo una giornata in cui affogare i bambini irritanti con la scusa dei gavettoni. Improvvisamente adesso c’incastra qualcosa la Madonna: devono averci fatto una domanda all’Eredità, sennò non mi spiego. 
C’è da dire che io sono di parte. Amo l’estate e tutto quello che riguarda l’estate – le albicocche, andare al mare, le vacanze, gli amici fuorisede che tornano in città, gli spettacoli di teatro in piazza, il cinema all’aperto, i concerti, girare in bici nel parco fluviale, i feromoni nell’aria, i tormentoni idioti, indossare le magliette a maniche corte, il balletto del mamamia, sbrodolarsi col cocomero, gli aperitivi, gli occhiali da sole, fare il bagno, le stelle cadenti e tutto il resto – amo l’estate e tutto quello che riguarda l’estate, dicevo, però credo di fare parte di quelle persone che sono geneticamente preimpostate per non essere così completamente spensierate durante questa stagione.
Amo l’estate, però non sono di quelli che se la godono e passano di festa in festa e pensano solo a vivere e che io invidio molto. Pur amando l’estate, mi trovo molto più in sintonia con le stagioni autunnali. È come se l’autunno fosse un vestito che si abbina meglio al colore della mia pelle, che ne so. Questo non significa che non mi piaccia anche il vestito dell’estate, ma gli altri mi cadono in modo più naturale. 
Ad ogni modo volevo specificare che il solo fatto che Ferragosto sia passato non autorizza nessuno a chiedermi cosa si fa per Capodanno.

Scrivo (a me, a F. e a tutti voi)

Qualche sera fa mi trovavo in spiaggia a festeggiare la laurea di un mio caro amico. È stata una di quelle serate in cui sei contento della vita e in cui scegli abbastanza consapevolmente di lasciare da parte per un momento tutte le varie problematiche che possono turbarti e per qualche ora puoi goderti il mare, la sangria e i tuoi amici. Verso fine serata – dopo i giochini alcolici, dopo i discorsi a bischero, dopo le risate, dopo il regalo e il discorso di laurea – la dolcissima C. mi ha chiesto se non avevo paura che il mio blog potesse diventare troppo personale. Durante questi anni io ho avuto modo di pensare spesso riguardo a questo, ma la domanda di C. e ciò che è successo qualche giorno dopo sono stati lo spunto di nuove riflessioni.
Non ci sarebbe da parlarne a lungo: dopo aver fatto alcuni errori, ho deciso di non scrivere sul blog (né su facebook, né su qualsiasi altra piattaforma pubblica) niente che non voglio che la gente sappia di me. Ho deciso di tenere il blog mettendoci la faccia, pertanto devo filtrare alcune cose, romanzarne altre, evitare di scrivere in maniera troppo personale. Spesso mi trovo a dire ad alcune persone di non pensare che io sia soltanto il Tredici del mio blog: quella è solo la parte di me piatta, narrativizzabile e pubblicabile, e a volte nemmeno troppo veritiera. Così come non si conosce una persona da un avatar, così non si può dire di conoscere me dal mio profilo.
Ma volevo andare oltre questo concetto, stavolta. Perché mi sono trovato a pensare che non tutto quello che si ottiene dalla vita virtuale sia necessariamente povero. Per esempio, quando qualche mese fa sono sparito per un periodo, qualcuno dei miei lettori – cioè persone che mi conoscono soltanto attraverso le mie parole – mi ha scritto per chiedere se andasse tutto bene. C’è S, che ogni tanto mi contatta per chiedermi come va; c’è M, che in privato si sfoga e mi racconta di sé; c’è G, che mi chiede di più sul teatro, perché anche lei vorrebbe tanto essere una bomba che esplode; ormai non mi ricordo più in quanti in chat mi hanno chiesto se ero proprio io quel blogger che scrisse quegli auguri di buon anno nuovo o quel post sul ragazzo dai pantaloni rosa; c’è G, che trovò il coraggio di congratularsi per la mia laurea in informatica, ma che sapeva che io nella vita dovevo scrivere, e poi iniziò a parlare di sé, della sua situazione che non gli permette di vivere la sua sessualità in modo aperto, mi parlava, G, e io capivo che in qualche modo si fidava di me, che io, con questo blog di cazzate, l’avevo convinto a contare su di me.
La settimana scorsa c’è stato F, che ha scelto di scrivermi una lettera pubblica, nei commenti, una lettera lunghissima che credo gli sia costata diverso tempo. Mi fa piacere quando le persone spendono il loro tempo per me: mi fa capire che ci tengono, perché il tempo è una cosa preziosissima, no? E insomma F mi ha scritto un sacco di cose, e sembrava mi conoscesse da una vita, e invece aveva solo letto il mio blog (peraltro tutto in una notte, non imitatelo a casa!). Ha scritto riferimenti a dei miei post che io stesso avevo dimenticato, e mi ha fatto capire che in qualche modo questo mio stile di scrittura gli era stato utile, gli aveva portato conforto e lo aveva fatto sentire meno solo.
È buffo, perché ho sempre pensato di scrivere per me, e di non dover rendere conto a nessuno di ciò che scrivo. Questo continua a valere, nel senso che il mio primo lettore sono proprio io, e sarà sempre così. Però, forse, considerando tutte queste cose e considerando le opportunità che pare si stiano per concretizzare nel mio futuro, forse posso provare a scrivere anche per qualcun altro. Certo, con tutta l’umiltà del mondo: probabilmente su cento persone, quelle che mi apprezzeranno e che mi troveranno valido/bello/utile saranno una o due, ma questo non è già sufficiente?
L’affetto di qualsiasi lettore non sostituirà mai quello dei tuoi amici durante una serata al mare e con la sangria; sono due cose diverse, e sono belle entrambe. Ora, poiché questo post è pallosissimo e sinceramente adesso che l’ho finito mi accorgo che non c’era tutta questa urgenza di scriverlo ma ormai l’ho scritto e mi rompe non pubblicarlo, cercherò di sviare l’attenzione di tutti postando un video pop.

Istantanee riflessioni che meriterebbero dei post a parte se solo non fossi affetto da accidia intellettuale

#1
Per definire lo stato sociale di un individuo, più che compilare il RID, bisognerebbe analizzare i biglietti da visita dei propri barbieri. L’altro giorno stavo parlando col mio amico Lorenzo riguardo al fatto che avremmo dovuto andarci a tagliare i capelli, dato che lui sembra la versione cocainomane di James Blunt e io quella di Wolverine senza tutti quei muscoli né lo sguardo ammiccante né tutte le cose sexy di cui Hugh Jackman è invece fornito. Insomma è venuto fuori che il suo barbiere ha un biglietto da visita trasparente con epiche frasi in inglese tipo HAIR STYLIST e ti manda un sms automatico per ricordarti quando hai l’appuntamento, mentre il mio barbiere, che si chiama Paolo ed è sfatto dalla nicotina, ha un biglietto da visita su cui ti fa i timbrini, e se arrivi a dieci c’hai un taglio omaggio, che è una cosa utile ma fa un po’ reparto macelleria della Conad.

#2
Al mio corso di sceneggiatura c’è un ragazzo di sedici anni che dice di aver smesso di andare a scuola perché i giovani di oggi sono troppo superficiali. “Non è mica vero”, ho pensato io intanto che scribacchiavo una classifica di gradimento sui migliori remix delle Icona Pop. Comunque, al di là dei facili giudizi su questo ragazzo che comunque stimo anche perché è mio amico su facebook e c’è la possibilità che legga questo post per cui sono costretto a dire cose belle ora posso anche chiuderla questa parentesi priva di punteggiatura vi prego fatemi mettere una virgola, comunque, dicevo, c’è da dire che ha una cultura cinematografica immensa. Ha visto tutto Fellini, Antonioni, Kubrick, ha visto tutto ciò che c’è di importante. Ma ciò che non è importante? Non è altrettanto importante il cinema non importante? La prossima volta lo interrogo sulla filmografia di Lindsay Lohan, voglio vedere. E terminerò le domande dicendo “È tutto”, che è una chiara citazione di Meryl Streep ne Il diavolo veste Prada ma lui non potrà coglierla.
#3
Stanotte, invece del solito sogno sul mio ex che ormai so a memoria e tra l’altro approfitto per comunicare al mio inconscio che gradirei alquanto un leggero cambio di canovaccio se non proprio del finale ma insomma oggi m’è presa con questi periodi lunghi senza punteggiatura che neanche James Joyce, dicevo, stanotte ho sognato che ero in una taverna messicana con vari amici. A un certo punto arriva l’animazione del locale e mi mette davanti un boccale di roba grigia e una fetta di limone, e mi dice di bere. Io chiedo Is this a joke? perché evidentemente anche nei sogni e anche in inglese ho bisogno di essere preciso con la grammatica (una qualità che non serve a niente nella vita, ma ve ne parlerò poi) e questo tipo mi fa di sì con la testa e aggiunge che è una bevanda disgustosa fatta con latte e caffellatte. Così mi rifiuto di bere. E questo mi fa incazzare, innanzitutto perché latte + caffellatte = caffellatte, dove sta la disgustosità della cosa mi chiedo, e poi perché ho smesso di mettermi in gioco perfino nei sogni. E non va bene.

Considerazione scema sull’ordine alfabetico (e anche sullo spremi limone spray)

Ogni tanto mi trovo a pormi quesiti dalla natura apparentemente inutile che tuttavia suscitano il mio interesse. Qualche giorno fa sono stato almeno un’oretta a ragionare riguardo lo scopo dello spremi limone spray che tra l’altro adesso è nel catalogo dei premi dell’Esselunga e lo si può vincere con un ammontare di punti tutto sommato irrisorio se si pensa alla notevole quantità di tempo che si risparmia e all’incredibile sollazzo che se ne ricava. Ovviamente dovete essere quel tipo di persone che apprezzano il gusto del limone sul cibo, altrimenti non ve ne fate niente. Per quanto mi riguarda, non lo metto nemmeno nel thè, però vi confesso che l’idea di avere un aggeggino che ti spreme il limone e te lo spruzza sul piatto in tempo reale mi diverte, farei minestre intere di succo di limone che poi però non mangerei.
Signor Esselunga se mi vuoi assumere come responsabile del marketing, sono qua. 
Comunque, mi stavo chiedendo: chi è che ha deciso l’ordine alfabetico? Nel senso: chi ha deciso che la prima lettera è la a, la seconda è la b, la terza è la c e così via? C’è un motivo o è stato fatto a caso da quello che ha inventato le lettere? Perché per l’ordine numerico è facile: prima c’è lo 0 perché hai zero biscotti, poi c’è l’1 perché hai un biscotto, poi c’è il 2 perché hai due biscotti e così via, aggiungendo sempre 1, è facile, si capisce, anche grazie alla gustosità dei biscotti, insomma non è che qualcuno ha dovuto decidere un ordine. Per l’ordine alfabetico invece no, e diamo per scontate un sacco di cose riguardo a questo. Per esempio, se la B non venisse subito dopo la A, ma venisse che ne so venti lettere dopo, io non avrei dovuto sostenere l’orale della maturità il primo giorno, con la conseguenza che forse avrei potuto ripassarmi la Rivoluzione Civile Spagnola e forse non avrei fatto scena muta quando il commissario esterno di Storia mi ha chiesto la Rivoluzione Civile Spagnola e forse ancora oggi non mi sognerei la Rivoluzione Civile Spagnola e nemmeno mi sveglierei nel cuore della notte gridando Francisco Franco signor commissario la risposta è Francisco Franco!, e questo è solo un esempio sulle conseguenze dell’ordine alfabetico.
Da grande voglio fare quello che decide gli ordini delle cose. Se non mi prendono all’Esselunga come responsabile del marketing.