La mia vita, più o meno.

Derby regionale

[…] La fiducia dell’Italia in Berlusconi è oltre il 60%. Non importa che la sua politica reazionaria e classista tagli i salari e gli investimenti, distrugga la scuola, la sanità, la ricerca, l’ambiente, metta la mordacchia alla giustizia, all’informazione libera, alla satira. Non importano le leggi ad personam, i conflitti di interesse, la gestione delle emergenze affidata a una cricca. Non importa il disprezzo della Costituzione, del Parlamento e della divisione dei poteri. Non importano gli attacchi al Presidente della Repubblica, all’unità sociale del Paese. Non importano lo sdoganamento del Fascismo, il razzismo di Stato, le guerre criminali, il ritorno al nucleare. Non importa che un affarista senza scrupoli metta al servizio della sua azienda e dei suoi problemi con la legge l’intera macchina dello Stato (una cosa che non c’era neanche all’epoca del Fascismo). Tutto questo non importa: la fiducia dell’Italia in Berlusconi secondo i sondaggi è oltre il 60%. Come si spiega tutto ciò? Io ho una mia teoria. […]

[ Daniele Luttazzi – intervento a Raiperunanotte ]
Beh. Che dire. Se proprio lo volete, votatevelo e prendetevelo. Io non riesco a spiegarmi con che logica qualcuno onesto o intelligente possa votarlo. Però la Legge italiana consente al popolo di votare qualsiasi persona, anche se poi la persona in questione non è in galera o in bancarotta solo perché è più volte intervenuto sulla Legge stessa.
Ad ogni modo, capisco che non ci siano grandi alternative. Ma tra due fette di carne, una scaduta da tre settimane e una scaduta da tre mesi, è proprio possibile che gli italiani preferiscano quella scaduta da tre mesi?! No. Non è possibile. E infatti gli italiani hanno chiaramente fatto capire di non voler più mangiare carne scaduta. Il 36 per cento di astenuti è un dato più che indicativo, di cui tuttavia i politici sembrano sbattersi altamente, molto più preoccupati dal pubblicizzare le loro vittorie. Ahhh, non che non l’abbiano notato, questo dato! Ve lo dico io: hanno una paura matta di dover ammettere che qualcosa non va. Perché farlo comporterebbe il necessario stravolgimento di tutto il sistema, a cominciare dall’espulsione dei parlamentari che da secoli sono radicati a quelle poltrone. E così i nostri orridi e “fondotinta-dipendenti” politici stanno lì a litigarsi un 7 a 6, 9 a 2, 4 a 3, esattamente come la Domenica dopo il derby. 
Tuttavia, nonostante le alternative di voto siano una peggio dell’altra, non credo che l’astensionismo possa essere una soluzione. A dir la verità in questo momento non vedo tante soluzioni geniali che non comprendano l’emigrazione di massa, ma sicuramente astenersi non risolve nulla. Come ho appena espresso, a loro non frega nulla, a loro basta tornare a sedersi lì e farsi vedere ad ogni programma televisivo esistente.
Per loro è tutta una partita di calcio. All’italiana. Sporca, truccata, corrotta, schifosa.
Per queste elezioni ho lavorato al seggio. Durante un momento morto in cui nessuno si presentava per votare, gli scrutatori parlavano tra loro di Juve e Milan e arbitri e pallone.
Notando il mio silenzio, uno di loro mi chiede per che squadra tifo.
Ho risposto che “ho una pessima opinione del calcio”.
Ci sono rimasti male.


L’eleganza dei bottoni septici

Approfitto di questa pausa che ho per rilassarmi e scrivere qualcosina sul blogghino (se avessi voluto scrivere qualcosa l’avrei scritta sul blog, ma poiché scrivo qualcosina è ovvio che scrivo sul blogghino. No?). Infatti, torno adesso dal seggio dove ho compilato verbali e altri pallosissimi fogliacci burocratici per tutta la mattina, per cui ora c’ho addosso il bisogno di scrivere due righe meno formali (leggasi: cazzate).
Vi parlo di ieri sera. Siamo andati a una manifestazione artistico-letteraria che si chiamava “Crash: la disgregazione della forma“. Non sono solito partecipare a questi eventi, ma nell’ambito della manifestazione c’era una cosa che mi interessava quindi ho dovuto prendere parte a tutta la serata. 
Informazione numero uno: questa cosa era a Pisa e cominciava alle 21:30. Indi per cui non abbiamo cenato prima di andare. Tanto finisce presto… – pensavo. Mh. Sì. Prestega! E’ finito a mezzanotte e un quarto! Sono volato al McDonald dove mi sono mangiato un CrispyMcCancro (quello con più troiai possibili, per intenderci) con patatine e cocacola.
Ma la cosa interessante (e con “interessante” intendo “spassosa”) è stata la presentazione di una tipa che si chiama Anna Utopia Giordano. E’ una poetessa barra modella barra artista barra musicista barra faccio-tutto-io che studia epistemologia a Milano. Che poi vorrei proprio sapere cosa fa un epistemologo, ma vabbè.
In pratica Anna Utopia Giordano scrive una strana forma di poesia chiamata rapsodia. Dopo che è finito il barboso e decisamente incomprensibile preambolo preparato da un barboso e decisamente incomprensibile professore di filo-qualcosa, le luci si sono affievolite; poi è partita una musica inquietante e Anna Utopia Giordano si è mostrata in tutto il suo biondo splendore, cominciando a recitare le sue rapsodie.

Ve ne riporto una che mi sono copiato sul cellulare quando aspettavo la mia amica che era andata in bagno (forse questo dettaglio del bagno potevo anche non darlo, ma è sempre bene contestualizzare tutto). 

sorride

i suoi bottoni septici
fiaccolano, leccando
sorgenti omofone
di silenzio scissile

onde tattili, puntiformi

Ora, sarebbe troppo facile fare dell’ironia. E infatti ne ho fatta molta. Voglio dire: che diamine sono i bottoni septici? E non urliamo, per favore: non vorremo mica rovinare questo meraviglioso silenzio scissile! E se ne leggete altre scoprirete che sono tutte strutturate così. Con queste parole caratterizzate da una ricercatezza irritante.

Il problema vero, invece, è che più le rileggo e più mi piacciono. Il non essere in grado di comprendere queste rapsodie (cosa che a questo punto credo – e spero – sia voluta) mi fa apprezzare maggiormente la forma del componimento, il suono delle parole, la cadenza delle pause. 
Non sono molto bravo a capire la poesia. Questa in particolare. Per cui ne apprezzo la bellezza, il lato esteriore, senza cercare di approfondirne la sostanza.

Purtroppo per Anna Utopia Giordano, il mio è un tipo di capriccio che non può durare più di una decina di minuti.


Ieri, le rane.

Ieri un mio amico sosteneva che non esistesse la predisposizione allo studio: lui non ha momenti in cui è più concentrato; lui non trova che ci siano periodi in cui riesce a studiare meglio; lui si costringe a studiare, perché se lo facesse per piacere non studierebbe mai, “piuttosto lavorerebbe sei ore di fila nell’orto”. Poi, per carità, questo mio amico prende tutti votoni. 

Io non la penso allo stesso modo. Altrimenti non sarei stato lì, ad aspettare il pullman delle 16. Dopo due ore che non riuscivo a concludere niente ho deciso che per un giorno avrei potuto anche non rimanere in facoltà fino alle sei. Anche perché sarebbe stato tutto tempo sprecato: dopo una mattinata improduttiva, mi ero messo in laboratorio e l’unica cosa che mi era riuscita fare è stata una sequenza abbastanza deprimente di test di Facebook, i quali mi hanno ricordato:
1) che sono acidissimo,
2) che il fucile d’assalto con cui ho più feeling è l’mp5 (che per me può essere un formato musicale, al limite…),
3) che il personaggio di Fabrizio de André che mi rappresenta è un matto,
4) che tra Illuminista, Romantico e Decadente sono decadente (ho ripetuto tre volte il test per farmi venire quel risultato! L’autore del test è un pochetto confuso al riguardo…).

E la consapevolezza di stare sprecando un enorme quantità di tempo mi faceva ancora più arrabbiare. Non ero per niente di buon umore, ed anzi ho l’impulso di sputare qui sopra ogni sfumatura del mio stato d’animo di ieri. Ma sarebbe una cosa volgare, e comunque poco interessante.

Dopo qualche ora di tormento, ho fatto la cartella e sono andato a prendere il pullman. E poi in città. Dovevo dare un senso alla giornata, e mi è venuto in mente che proprio il giorno stesso era uscito il nuovo album dei Baustelle. In realtà avevo intenzione di scaricarlo. Poi però non ho resistito. Non compro mai dischi, per una volta si può fare! 

Eccolo. accolto alla perfezione dagli altri oggetti del comodino. Si vede che è in posa. Le opere d’arte sono sistemate a regola d’arte. Ossia, tra libri e lenti a contatto.




Eccolo. I Mistici dell’Occidente. Mio. Non è l’album che mi aspettavo, ma non ne sono deluso. Il rock mistico e spietato del Baustelle si incupisce e al contempo si eleva. Come da titolo, risuona misticheggiante. A livello di testi è più maturo dei precedenti, forse troppo maturo per me. Maturità significa malinconia. Per il tempo che passa, per gli amori vissuti senza passioni, per l’esagerata importanza data all’immagine. Pesci avvelenati in mezzo al mare. 
Probabilmente tornerò a scrivere dei Mistici. Ormai si sa che sono completamente patito dei Baustelle. Nel frattempo, vi lascio con una canzone che mi ha colpito molto, perché sembra stata scritta appositamente per ieri. La dedico a… boh, la dedico a te




Baustelle – Le rane




Mentre scoprivamo il sesso
ignari di ciò che sarebbe poi successo
dopo la maturità
eccoci che attraversiamo i girasoli
bucanieri nati
andiamo via dalla realtà
dalle case popolari

che fine hai fatto
ti sei sistemato
che prezzo hai pagato
che effetto ti fa
vivi ancora in provincia
ci pensi ogni tanto alle rane?
l’ultima volta ti ho visto cambiato
bevevi un amaro al bancone del bar
perchè il tempo ci sfugge
ma il segno del tempo rimane

nelle notti estive e nere
solo lucciole a guidarci nell’oscurità
un’era fa
la crudele pesca delle rane
in uno stagno usato per l’irrigazione
io e te
fratello mio
con gli ami e la torcia

che fine hai fatto
ti sei sistemato
che prezzo hai pagato
che effetto ti fa
vivi ancora in provincia
ci pensi ogni tanto alle rane?
l’ultima volta ti ho visto cambiato
bevevi un amaro al bancone del bar
perchè il tempo ci sfugge
ma il segno del tempo rimane

ma voglio immortalarti e ricordarti così
coi sandali e il coraggio di Yanez
e porterò morendo quella gioia corsara con me

io nel frattempo me ne sono andato
se vuoi ti ho tradito
che effetto mi fa
la piscina di un agriturismo
ha coperto le rane
l’ultima volta che ti ho salutato
poi sono scappato nel cesso del bar
ed ho pianto sul tempo che fugge
e su ciò che rimane





E fu così che passai a Beni Culturali

Utilizzerò questi minuti che mi separano dal pranzo per raccontarvi un fatto singolare che mi è capitato ieri. Inutile che neghi di aver formulato la frase appena riportata unicamente con lo scopo di scrivere la parola “singolare”. Una parola squisita, nevvero! Certo, se fossi un briciolo più furbo avrei potuto dire qualcosa come “Se Tomasi di Lampedusa sono due, al singolare è Tomaso di Lampedusa?”
Bene, una volta detta la cretinata introduttiva di rito, posso passare alla polpa (si fa per dire…) dell’intervento. Ieri pomeriggio mi trovavo al mio solito Polo (in tutti i sensi, visto che se non stai nei pressi di una stufa inizi a congelare). Ero nel laboratorino che mi scervellavo su come poter ascoltare subito il nuovo singolo dei Baustelle. Ero collegato su Linux e YouTube su Linux ha bisogno di un software che non è installato sulle macchine del Polo. Al di là delle questioni tecniche che avrei benissimo potuto tenere per me, il nocciolo della questione è che decido che mi sarei spostato un attimo nel laboratorio con Windows. Sono a metà strada, quando…
Voce – Scusa, posso chiederti un’informazione?
Appartiene a una donna. Non sono molto bravo a stimare le età delle persone, comunque lei avrà avuto sicuramente trent’anni, forse quaranta. Aveva una pronuncia nordica, pur essendo italiana. Lisca.  Capelli rossi. Vestita alternativa, sciarpe tutte colorate e cappellino da negozio etnico. 
Io – Sì, certo.
Donna – Tu studi informatica?

Io – Sì.

Donna – Ecco, io vorrei farmi un indirizzo di posta elettronica. Lo avevo su Yahoo ma ho paura che ci sia qualcuno che mi legga la posta illegalmente. E’ possibile?

Io – Beh, non mi sembra la persona che custodisce segreti di stato o codici di sicurezza mondiale, comunque…

Beh, questo qui sopra non gliel’ho detto davvero. Però l’ho pensato! Nel senso: a chi vuoi che interessi la tua posta? Ma poi mi sono ricordato della regola base: niente è come sembra. Quindi mi sono limitato a dire:

Io – Beh, sì, è possibile.

Donna – Ecco, mi sapresti dare delle indicazioni precise su come farmi un indirizzo?

Io – Sì, dunque, cioè, nel senso, insomma, dunque, beh, innanzitutto cerca…

Donna – Mi potresti far vedere?

Sfacciata, la tipa. Mi piace! Salutando con la manina la prospettiva di ascoltare la canzone che cercavo, la conduco in un laboratorio.

Io – E’ stata un po’ sfortunata, ha beccato l’informatico più scarso di tutta la facoltà, ma questo dovrei saperlo fare…

Cinque minuti dopo che avevamo cominciato la creazione di un nuovo account con gmail, entra un professore nel laboratorio che deve tenere una lezione.

Donna – Possiamo andare da un’altra parte? Preferisco.

Dato che l’unico altro laboratorio disponibile era il mio, sono costretto a portarla lì. Nel frattempo, passiamo davanti a Hind ed Emilio, e io cerco di rendermi più invisibile possibile, perché non avrei saputo rispondere ad eventuali sguardi interrogativi (poi scoprirò che Hind non mi aveva notato, invece Emilio aveva chiesto “Chi è l’amica di Alessandro?”). 

Prima di entrare nel laboratorio, lei – che probabilmente stava avendo dei ripensamenti sulla scelta del ragazzo a cui chiedere aiuto – mi fa
Donna – Ma tu studi davvero informatica?
Io – Ehm… Sì

Donna – Dalla faccia mi sembravi più uno da… Non so, Beni Culturali.

Ecco. Ora, secondo Giulia questo è stato un complimento. Secondo papà invece ha voluto dire che ho la faccia di uno che non fa un cazzo a giornate. Lì per lì non ci ho ragionato molto, e ho risposto che in effetti quando ho scelto il corso di laurea avevo tra le opzioni anche qualcosa di più umanistico. Poi sono inspiegabilmente finito a informatica.

Donna – E a che anno sei? Quanto ti manca per finire? Ti riesce? Ma ti piace?

Intanto che la conversazione proseguiva, io avevo riavviato la procedura di creazione account. Avevo inserito tutti i dati. L’errore che faceva lei era quello di non inserire correttamente la password. Tra l’altro, non mi ricordavo che ci volessero per forza dei numeri nella password. Comunque, Google alla fine di tutto il procedimento chiede un numero di cellulare per la conferma dell’account.

Donna – Il numero di cellulare? Nooo ma io non sono d’accordo, mi spiace… E poi guarda che cosa c’è scritto qui: “Google assicura che non venderemo il tuo numero a terzi”. Non ven-de-re-mo! Io la trovo piuttosto grave questa cosa…

Io dico che capisco la sua diffidenza ma che penso che lo scrivano per formalità e per la sicurezza dei clienti. Comunque non c’è niente da fare: ‘sta tipa non vuole dare il numero. Tuttavia, adesso che ha imparato la procedura, può riprovare da sé. Dopo un’ultima parentesi su un finlandese che diversi anni fa l’ha scioccata mostrandole un codice di linguaggio di programmazione (mi chiedo come si sentirebbe se vedesse l’algoritmo del qsort), mi augura di terminare gli studi (…) e mi saluta. E io posso dedicarmi agli spietatissimi Baustelle.

Parentesi di me

Credo sia giunto il momento di riprendere questo blog tra le dita. Gli ultimi interventi non sono stati molto sostanziosi. Una o due foto. Una canzone, qualche riga. Decisamente insufficiente. Insufficiente per me, intendo. Oh, sì, è una critica puramente autoriferita, la mia. Difatti, come posso alimentare il mio ego e gonfiarlo fino a fargli assumere dimensioni spropositate se non mi bulleggio un po’ sul blog personale?
(Parentesi numero uno. “Bulleggiare” è un verbo entrato nel mio vocabolario solo recentemente – e detto tra noi la mia speranza è che ci esca nel giro di poco tempo. Se fosse questa l’ultima volta che lo uso sarei felice. Okay, no, non sarei felice, però leggermente più sollevato sì. Diciamo più sollevato del 5%. Toh, buttalo via, il 5%. Cosa cazzo sto scrivendo? Parentesi, chiuditi!)
(Ehi, obbedienti queste parentesi! Non le ricordavo così docili. Questa era la parentesi numero due)
(Ci ho preso gusto. Squadra che vince non si cambia. Ma che c’entra? Nulla. Era per dire che ora m’è presa la fissa di numerare le parentesi. Questa che si sta per chiudere è la terza)

Abbiamo finito di scrivere stronzate dentro le parentesi?! Come se non avesse valore quel che viene scritto all’interno di una parentesi. MAGARI! Tutte le date di storia che il prof voleva sapere nei compiti… Che poi basta scriverle su un bigliettino e il gioco è fatto. Non che io usassi i bigliettini eh, noooooooo! Lo dicevo così. 
Ma torniamo a noi – o meglio: a me, non dimentichiamoci che questo blog è quasi completamente alecentrico. Dunque, stavo facendo finta di scusarmi per la mia prolungata assenza. In realtà è tutto un trucco per parlare di me, e siccome sono abbastanza presuntuoso da credere che la cosa possa interessare a qualcuno, penso che lo farò. Parlerò di me.

(Parentesi numero quattro: uoooooooooo che novità, parli di te! … … … Ora, diciamoci la verità, qui non serviva una parentesi. E’ l’estetica che lo chiedeva. Ci stava bene, dai. Ora però può anche finire, grazie)

Prima di essere interrotto (sta cominciando a essere irritante ‘sta storia delle parentesi, comunque) stavo scrivendo qualcosa di me. E’ mia intenzione raccontarvi in poche righe ciò che mi è accaduto durante questa assenza. O, più che altro, ciò che mi ricordo. Come sapete ho una memoria piuttosto scarsa. Un informatico direbbe che la mia cache ha pochi e malfunzionanti registri associativi ma, poiché non sono un informatico, io non lo dirò. Ad ogni modo, se non vi interessa un’emerita sembola delle cose mie, siete liberi di chiudere il blog e io giuro che non me la prenderò. Ma vi avviso che potreste rischiare di perdervi un’altra delle mie esilaranti parentesi. Uao, capite che rimpianti?

Penso che il primo argomento spetti al teatro. Con mio gran disappunto, mi piace. Ho una piccolissima parte in una commedia che verrà messa in scena ad Aprile, e nonostante il mio ruolo non sia molto importante sono state comunque necessarie molte molte prove.
Inoltre ho seguito un corso di teatro sociale che si basava sulla tecnica del playback theatre. Non è molto praticato in Italia, comunque io consiglio di provare a tutti quelli che ne avranno l’occasione. All’inizio ti senti veramente ridicolo e a disagio. Ti fanno fare cose assurde (tipo fare finta di essere alberi volanti, per citarne una). Poi, però, qualcosa in cambio ti arriva. E cioè la consapevolezza che siamo tutti ridicoli, e quindi tanto vale essere chi si è. Potrei scrivere del playback theatre per tutto il post, ma lo farò un altro giorno: the show must go on (non c’incastra niente, m’è venuto così…).
Con la musica non sono andato molto avanti. Ho riscoperto il Sussidiario illustrato della giovinezza dei Baustelle, ed è la mia nuova droga. Tra parentesi, domani esce il nuovo singolo dei Baustelle. Se sarà una delusione mi impicco al Dipartimento di Matematica. 

(Parentesi numero cinque. E’ necessario specificare perché proprio al Dipartimento di Matematica. Semplicissimo: l’edificio si affaccia su una strada lunghissima. Quindi il mio corpo inerte e strafigo – poiché ovviamente mi suiciderò in camicia – sarà visibile a tutta la via. Con un binocolo, magari)

Altra musica? Bennato, Subsonica, qualcosa di Carmen Consoli e dei Muse, Perigeo (questi non li conoscete eh… perlina di Ale!), e da pochi giorni gli Who, che stanno facendo da colonna sonora a questo post (leggasi: scarico tutta la colpa a loro). 
Casa mia ormai è a posto. Più o meno, ecco. Okay, io dormo sempre su dai nonni, ma il mio nuovo letto dovrebbe arrivare a giorni. Me lo ripetono sempre, che “il mio nuovo letto dovrebbe arrivare a giorni”. Sono circa tre settimane che questi “giorni” non “arrivano”, però.
Ambito accademico: una nuova sensazionale scoperta. Non so programmare. Yuppi! In realtà la cosa più simpatica è che ho iniziato ad andare in facoltà con le lenti a contatto, con conseguente mal di testa causato dalla scarsa abitudine di portarle per tante ore di fila.
Domenica scorsa sono stato a vedere Alice in Wonderland. Non vi nascondo che mi fa una rabbia immensa sapere che quello che è uno dei miei libri preferiti adesso sarà sulla bocca di tutta l’imbecillità facebookiana, solo perché Tim Burton l’ha voluto rappresentare (a mio avviso distorcendo “un attimino” l’impronta Carrolliana, ma riuscendo comunque a creare una pellicola pazza, visionaria e per nulla deludente).

Direi che a questo punto posso omettere tutti i particolari poco piacevoli di questo mese. Questo per evitare di rendere il post chilometrico, dato che vedo che già così mi sembra piuttosto lungo. Inoltre, ho scritto questo papiello con l’egoistica intenzione di mettermi allegria. Non vorrei rovinare tutto parlando di cose sconvenienti!

Vi volevo lasciare con una frase epica. Un finale magnetico, non so. Mi butto sul drammatico:

I’m back, blog. 

Che ne dite? Sufficientemente ridicolo? Massì, massì.

Dancer eye

Forse io non saprò ballare, ma il mio occhio sinistro sì. Urge una parentesi: in realtà non si sa se io sappia ballare, ma la cosa certa è che noi ragazzi furbi (leggasi: rufiani e bisognosi di un corso d’autostima) diciamo di non saperlo fare, in modo tale che, nel caso dovesse capitare l’occasione, abbiamo messo le mani avanti e la probabile/eventuale figuraccia è attutita dal nostro atto di paraculismo estremo. Ad ogni modo, il mondo attualmente non ha grosse banche dati a disposizione sulle mie qualità motorie.
Dicevo che il mio occhio sinistro, invece, sa ballare benissimo. E’ da lunedì che lo fa. Ogni tanto comincia e si mette a tremare. Inizialmente poteva anche essere una cosa simpatica: posavo l’indice sulla palpebra inferiore (se c’è un qualche termine tecnico migliore di “palpebra inferiore” ditemelo perché a me non viene in mente. Comunque ci siamo capiti) e sentivo un formicolio quasi piacevole.
Però non smette! Dopo una settimana, mi secca fare “Uh, mi balla l’occhio!” ogni volta che succede. E’ seccante. Pensavo fosse il nervosismo legato all’esame di Calcolo Numerico. Anzi, sicuramente è così, poiché non ricordo di aver sofferto di più per un esame. Che poi è buffo da dire, perché ogni volta che devo dare un orale sono sempre più stressato. Il nervosismo cresce in maniera esponenziale, direbbe un analista. Anzi, un analista direbbe che il limite per i tendente a infinito della funzione Nervosismo(i) è infinito. Ma a noi non interessa questo, dicevamo dell’occhio.
Dopo aver dato l’esame – passato!, pereppeppeppeppè!, breve parentesi di autocelebrativismo – l’occhio ha continuato a muoversi. Ora, mi hanno tranquillizzato dicendomi che è una cosa normale e che passerà nei prossimi giorni (a meno che io non inizi a usare Tesmed, ma non ne ho l’intenzione, grazie). Ma se dovesse continuare, devo assolutamente pensare a un altro modo per dare un utilizzo a questo tic altrimenti improduttivo.
Avevo in mente le seguenti cose: 1) collegare un micromeccanismo alla palpebra in grado di approfittare del movimento per produrre energia elettrica e riuscire a illuminare i paesini sprovvisti di elettricità, come quelli in Botzwana, o come Arcore; 2) calcolare la funzione che esprime il periodo di traballamento dell’occhio: se esiste, sfruttare tale periodo per creare un nuovo sistema temporale in cui non si usano più i secondi, minuti, ore, ma nuove straordinare unità di misura, come il mio periodo di traballamento del mio occhio sinistro, o l’attimo che intercorre tra due miei starnuti, o la potenza dei miei colpi di tosse.
Beh, vado a prepararmi che tra un pochino devo andare. E quando dico “un pochino” intendo 134 traballamenti d’occhio, 12 starnuti e 4,56 colpi di tosse.

N i n e

One. Prima italiana di Nine. Cinema Eden, Viareggio. E… non c’era un cane. Probabilmente i cani in questione erano a vedere l’attesissimo, famosissimo, premiatissimo, acclamatissimo (e un sacco di altri issimo) Avatar. Film che non ho ancora visto e nonostante questo si è già prenotato un intervento sul blog – con mio gran disappunto, tra l’altro. Comunque, parleremo di Avatar quando l’avrò visto. Adesso basta. Chiusa parentesi Avatar. Chiusa. Chiusa? Sì, lo è. Dicevo di Nine, il nuovo musical di Rob Marshall, già regista di Chicago. Mi è piaciuto. E questo post raccoglie qualche pensiero su questo film. Precisamente, nove.
Two. Penélope Cruz si conferma la mia attrice preferita. Dopo aver rubato a Scarlett Johansson il primo gradino del podio con la sua interpretazione in Volvèr, in questo film non ha fatto altro che ribadire la propria bravura, eleganza, bellezza e versatilità.

Three. Ma quanto fumano tutti?! I personaggi hanno un sigaretta costantemente incollata alle dita, e non appena la posano, iniziano a cantare come usignoli, sfoggiando voci limpide e cristalline. Tutti tranne Fergie, che paradossalmente è l’interprete della canzone più potente.


Four. Sofia Loren è – nel cast principale – l’unica attrice ad essere italiana. Ed è anche l’unica a non sembrarlo. Forse perché è nata italiana. E poi è stata imbalsamata. Questo spiegherebbe anche come mai appena prova a ridere le si vede una parte di cranio all’attaccatura dei capelli. Evidentemente le colle stanno perdendo d’effetto.

Five. Parliamo di questa Italia. Ho avuto l’impressione che il ritratto che le si è dato nel film rispecchiasse, più che l’immagine dell’Italia, quella dell’America. Con la sola differenza che in America se li sognano scenari così. 

Six. Seducenza allo stato puro. Ovviamente è un film incentrato molto sulla figura della donna, visto che ne analizza sette tipi, dall’amica alla moglie all’amante alla prostituta alla madre alla musa. Tutte analisi molto superficiali in realtà: non si può pretendere che in due ore si scavi nel cuore di così tanti personaggi. Ad ogni modo, le parentesi che apre su ognuna di loro sono interessanti. Sterili, ma interessanti.

Seven. Il titolo: nove. Okay, fa riferimento all’età mentale che il protagonista dice di avere. Ma è anche un chiaro richiamo alle muse dell’Antica Grecia. Ecco: la mia precisione maniacale è alquanto seccata dal fatto che poi le donne di Nine sono sette e non nove.

Eight. Canzoni e musiche molto carine. La mia preferita è l’Overture delle donne (che ho pubblicato in cima al post), poiché ci sono tutte e sette, seguita a ruota da Be italian di Fergie. Ma la cosa drammatica è che il mulo non mi scarica la colonna sonora!

Nine. Be italian!



Blue monday

…che in italiano non si traduce con il letterale “Lunedì blu”, poiché è il nero che il modo di dire associa ad una giornata andata male. Oggi, secondo lo psicologo inglese Cliff Arnall, è il giorno più infelice dell’anno. Il terzo lunedì di Gennaio è il blue monday. A causa di tanti fattori: vacanze finite, estate lontana, tendenziale brutto tempo, buoni propositi per il nuovo anno già infranti e speranze già deluse.

Ora, con molta calma e una buona dose di raziocinio, cercherò di analizzare la mia giornata.

Domani ho un esame. Che molto probabilmente boccerò, poiché non ho avuto né il tempo né le forze per prepararmi adeguatamente (questo a voi non frega niente, ma a me serve per auto-convincermi e rasserenarmi che ho fatto tutto il possibile. Sì, esatto, bravi: me la racconto). Questa consapevolezza mi ha fatto rimanere più o meno tranquillo per tutto il giorno, e non mi sono nemmeno agitato troppo quando ho constatato che in otto ore di studio ero riuscito a fare solo due esercizi.

A pranzo ho mangiato un trancio di pizza e una focaccina. Ma ero insieme a due persone a cui voglio un bene immenso, per cui non è stato pesante. E poi… la schiacciatina con cecina-rucola-pomodori… è potente! 

La macchinetta del caffè non distribuiva più le palettine, né lo zucchero, con mio estremo disappunto. Ciò non è stato proprio proprio positivissimo in effetti. Anzi, quel caffè mi è andato giù con difficoltà, poiché sono abituato a prenderlo molto dolce (cinque pallini illuminati della macchinetta, per intenderci). Ma ciò ha contribuito a rendermi più vigile e concentrato nelle ore di studio successivo! Non tutto il male viene per nuocere, e nemmeno tutto il caffè amaro (bastardastronzainfame di una macchinetta, tra parentesi).

Ho notato di aver sviluppato una tendenza irritante a dire “poiché”. Questo a causa di tutti i teoremi di calcolo numerico che ho dovuto dimostrare, e di tutti i passaggi da giustificare. “Poiché” e “perciò” sono due parole che non sopporto, troppo formali. E adesso le metto in ogni frase, insieme a “tuttavia” e “okay” e “carino”. Ma, a pensarci bene, le parole non devono starmi antipatiche: è bene che mi abitui.

Sono tornato a casa per lenteacontattarmi. Che non significa che dovevo telefonarmi componendo il numero molto adagio. Ma credo che non ci fosse bisogno di spiegarvelo, ora che ci ragiono. Beh, comunque sono rimasto in casa sì e no venti minuti, per controllare la posta e bere un bicchier d’acqua. Mi sono portato un pezzo di pane in macchina da mangiare mentre ero in coda ai semafori (casualmente, trovo sempre un sacco di semafori rossi quando sono in ritardo, ed ero in ritardo di… troppo tempo). Beh, qui non c’è molto da dire… Ma il pane era fresco, dai.

Arrivo alla sede di Spett’attori, che sarebbe un corso di playback theatre a cui partecipo. Lo scrivo in inglese perché fa molto più figo, e così ho modo di tirarmela un po’ (e soprattutto perché non credo che esista un termine equivalente in italiano), ma in realtà è un semplice corso di teatro sociale, che consiste in tecniche sperimentali non difficili da spiegare. E’ stata una delle lezioni più emozionanti di tutto il corso. Non sto a entrare nei dettagli, ma quando sono uscito mi sentivo proprio… bene.

E ora sono qui, a scrivere cretinate sul mio blogghino. Dopo aver mangiato ed aver ascoltato un po’ di musica, ovviamente. E penso che, tutto sommato, paradossalmente, in conclusione (e tutta una serie di altre locuzioni come queste), il mio monday non è stato proprio proprio così blue.

Oggi c’è stata la manifestazione antirazzista di massa su Facebook. Stranamente, sono stato contento di essermi iscritto al social network

Il tuo Cristo è ebreo e la tua democrazia è greca. La tua scrittura è latina e i tuoi numeri sono arabi. La tua auto è giapponese. Il tuo caffè è brasiliano. Il tuo orologio è svizzero e il tuo walkman è coreano. La tua pizza è italiana e la tua camicia hawaiana. Le tue vacanze sono turche, tunisine o marocchine. Cittadino del mondo, non rimproverare al tuo vicino di essere straniero.


[ 1994, manifesto sui muri di Berlino ]