Saltiamo l’introduzione, occhei?
Nanette, di Hannah Gadsby
Hannah Gadsby è una comica australiana (forse l’avete vista nella adorabile serie Please Like Me, in cui interpreta un personaggio molto simile a sé stessa). Da qualche giorno su Netflix è disponibile il suo spettacolo #Nanette, una cosa che dovreste assolutamente vedere. Soprattutto se siete maschi, bianchi, etero, perché secondo Hannah è il momento che si prendano qualche responsabilità, o che almeno accettino di essere il bersaglio di qualche battuta.
Lo spettacolo dura un’ora, ed è innanzitutto un esercizio di scrittura comica, in cui spesso Gadsby spiega al pubblico il motivo per cui ha appena riso. Ma è anche e soprattutto il senso di questo testo che ha fatto parlare, perché si basa sulle esperienze personali della stessa attrice, e sono delle esperienze forti, su cui le persone non scherzerebbero se non avessero bisogno di incanalare la rabbia da qualche parte. Si parla di contenuti troppo poco lesbici, del ruolo della commedia, della misoginia di Picasso, dell’omofobia in Tasmania e di Vincent Van Gogh, che ha dipinto i girasoli non perché fosse pazzo, ma perché… no, questa non ve la spoilero, io ho pianto.
Il quinto episodio della seconda stagione di Queer Eye
Del mio amore per Queer Eye ho già ampiamente parlato su questo blog. Non ho ancora scritto niente riguardo la mia profonda delusione sul fatto che una serie del genere non abbia spopolato in Italia, nemmeno nella comunità gay. Forse siamo troppo impegnati a guardare stronzate come The walking dead, non lo so. Negli Stati Uniti Queer Eye è diventato un fenomeno di culto, e i cinque ragazzi gay che in ogni puntata rimettono in sesto una persona allo sbando oggi sono venerati come delle vere pop star. Ne hanno parlato praticamente tutti i media americani, e se perfino il New Yorker ha dedicato un pezzo agli avocado di Antoni, io penso di aver ragione quando dico che Queer Eye sfrutta il format della reality tv per fare una cosa chiamata creare cultura.
Un’altra dimostrazione di questo l’ho avuta guardando un episodio della nuova stagione, intitolato Sky’s the limit, in cui i Fab 5 hanno a che fare con la vita di un uomo transgender sei settimane dopo l’operazione. È meraviglioso il modo in cui, senza risultare patetico, Queer Eye porta in televisione la bellezza e le difficoltà di una persona trans, arrivando a far ammettere perfino a cinque gay sostenitori della causa LGBT+ che c’è molta ignoranza anche all’interno della comunità.
Gay Revolution
Questo documentario francese lo trovate su Sky, è del 2014 (e un po’ si vede) ma è un ottimo punto di partenza per chi (etero o meno etero) ha qualche debito in Storia della cultura LGBT+ e vuole recuperare. A volte siamo portati a pensare che dopo i Moti di Stonewall la comunità gay abbia potuto vivere alla luce del sole, ma non è stato così. Come in tutte le cose, i giorni di profonda libertà che abbiamo oggi sono arrivati in maniera graduale: prima esistevano una serie di codici segreti, frecciatine e allusioni, che facevano subdole incursioni nei media degli eterosessuali.
Quindi, se da una parte avevamo i Pride, Ellen Degeneres e Smalltown boy dei Bronsky Beat che mostravano direttamente gay, lesbiche, bisessuali e transgender, dall’altra c’erano film come Ben Hur e cantanti, attori, personaggi che strizzavano l’occhio al pubblico LGBT+ senza dire niente esplicitamente.
Jay Z da David Letterman
Quando ho saputo che David Letterman, che io adoro da quando il suo show veniva sottotitolato su Tele+ (si parla di tempi veramente antichi, andavo alle medie e già allora ero sarcastico e insopportabile), avrebbe condotto uno speciale su Netflix, ho fatto i salti di gioia. Il nuovo spettacolo si intitola Non c’è bisogno di presentazioni (in originale My next guest needs no introduction), è composto da sei puntate, tutte davvero di alto livello.
La più inaspettata è stata quella con Jay-Z, un personaggio che reputavo abbastanza inutile se non per la fortuna di aver sposato Beyoncé. Invece la conversazione tra Letterman e il rapper americano mi ha molto colpito. Si parla di quando lui spacciava, prima di diventare uno dei produttori più influenti del mondo, della madre che si è scoperta lesbica, del tradimento, della paga degli insegnanti. E naturalmente di razzismo e della parola con la n, di cui vi riporto un estratto che ho trovato illuminante.
– Non so se posso parlarne. Ne parlerò e tu mi dirai se posso. Quello a cui voglio arrivare, e perdonami se sembro scemo, è l’uso della Parola con la N. Mi sento sciocco a dire così.
– Non dire la vera parola, Dave. Stai andando così bene…
– Lo so! Ma la sento dire molto frequentemente.
– Se qualcuno ha sempre usato una parola per sminuire la tua cultura, l’hip hop ha preso quella parola e l’ha capovolta. L’ha usata per dare valore. Ora, qualcuno non sarà d’accordo e qualcuno sì, e va bene così. È bello che la gente faccia discussioni su questa parola. Alcuni da un’altra generazione sono molto offesi perché credono che sia l’ultima parola che alcune persone hanno sentito prima di morire. Perciò hanno una connessione emotiva molto forte con l’uso di questa parola. Ma non è la parola: è l’intento dietro la parola. La gente che è per natura razzista la sostituirà con un’altra parola o con un altro modo di esprimere il razzismo.
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