La mia amica Pippi ha numerose qualità. Ne elencherò alcune, giusto per far vedere che non lo dico tanto per dire: è simpatica, usa sempre dei termini appropriati, non si scaccola (oppure, se lo fa, sa occultarlo bene), si tiene aggiornata, legge molto, sa come mandare avanti una conversazione, è una grande lavoratrice, mi aiuta a giustificare le scelte verbali, indossa dei completini deliziosi, conosce tutto il palinsesto di Rai 3 dal 1988 a oggi. E non sono in ordine di importanza.
Ma la sua caratteristica principale è la memoria: Pippi non dimentica niente. Niente. Ci sono stati dei momenti in cui ho ipotizzato una sua origine aliena. Il suo non è un cervello: è un database. Qualche giorno fa stavamo passeggiando e siamo passati di fronte al nuovo H&M, e lei si è ricordata che nel 2015 avrei voluto scrivere un racconto sul fatto che un mio amico aveva sostenuto il colloquio per lavorare lì come commesso. Il racconto non l’ho scritto, e probabilmente il mio amico non si ricorda nemmeno di aver mandato il curriculum.
Pippi mi ha insegnato che c’è una differenza importante tra scordare e dimenticare: la prima si fa con il cuore, la seconda con la mente. Se non ho capito male, nella parola “dimenticare” è contenuto il termine “mente”; invece, in “scordare” c’è “cor”, che significa cuore. È romantico, e anche se non è del tutto esatto mi piace continuare a pensarla così. Si dimentica col cervello, ma si scorda con il cuore.
Ieri mi sono ricordato di una cosa che avevo dimenticato. È buffo, perché in questo caso posso anche dire che ieri ho rammentato una cosa che avevo scordato.
Stavo andando a lavoro. Quando non piove vado spesso a lavoro a piedi: lo faccio per convincere il contapassi del mio cellulare che sono un giovane attivo, e anche perché nel frattempo posso mandare note vocali di una durata indicibile a tutti gli amici che hanno la pazienza di ascoltarle. Ero proprio nel bel mezzo del quinto minuto di un messaggio quando vedo, sul ciglio della strada, una specie di gomitolo marroncino, che aveva l’aria di sembrare vivo. Forse perché era morto da poco. Era un riccio schiacciato.
Mega trip indietro nel tempo, fino a una mattina degli anni Novanta in cui nel salotto di casa mia, io e nonna Irene assistevamo al consumarsi di una tragedia. Su Rai 2 davano un cartone animato che si chiamava Le avventure del bosco piccolo, che parlava del viaggio di alcuni animali verso il fantomatico Parco del daino bianco, dopo che la foresta in cui vivevano era stata scelta dagli uomini per costruirci una città. Come in tutti i cartoni per bambini, gli animali parlavano ed avevano diverse personalità in base al grado di tenerezza che suscitavano nello spettatore, ma al contrario di tutti i cartoni per bambini, questo era una vera tragedia.
In questo cartone morivano tutti. Game of Thrones in confronto è una commediucola. The Blair Witch Project uno spasso. Tra l’altro, non capisco perché mia nonna mi vietasse di vedere il Detective Conan solo perché c’erano gli omicidi ma considerasse Le avventure del bosco piccolo un cartone istruttivo che persino lei seguiva con passione. Con un cinismo che nemmeno i fratelli Cohen, la serie era un pretesto per trattare di situazioni profondamente serie come l’inquinamento, la globalizzazione, lo sfruttamento, il cannibalismo, e ovviamente la morte. Ogni tanto qualche animale veniva fatto fuori, quando ti eri affezionato a lui. Proprio come fanno in The walking dead.
Ma l’episodio più drammatico, la puntata che ha portato me e nonna Irene sul baratro della depressione, il momento dopo il quale non siamo stati più gli stessi, è stato quello che vedeva per protagonista la coppia di ricci.
Prendetevi cinque minuti di tempo.
A parte il gufo che ha la stessa voce di Mara Maionchi, questa scena è disarmante. Considerate che nelle puntate precedenti la compagnia di animali aveva già perso almeno due fagiani e un coniglietto, e che il gruppo era praticamente arrivato all’ambito parco del daino bianco, come si evince dalla battuta finale del rospo: «Adesso non ci sono più ostacoli, avanti amici!» Io e nonna Irene eravamo scioccati. Se mi concentro, posso ricordare il silenzio nel mio salotto mentre scorrevano i titoli di coda: eravamo rimasti senza parole, proprio noi, che alla fine di ogni episodio avevamo l’abitudine di commentare le scelte registiche e i singolari sviluppi di trama delle serie che guardavamo prima di andare a scuola, da Heidi all’Albero azzurro.
Subito dopo l’epifania del riccio morto che mi ha riportato alla mente questo ricordo, mi sono chiesto se lo avessi dimenticato oppure scordato. Promemoria: si dimentica col cervello, si scorda col cuore. L’impietosa morte dei due ricci è stata particolarmente traumatica per una serie di motivi di cui solo una minima parte riguardavano la trama della serie animata. Certo, c’era sicuramente una parte di me dispiaciuta per la perdita di due animaletti innocenti, un po’ stupidi, ma in fondo buoni. Il mio cuore deve averlo accusato, e avrà fatto di tutto affinché il me di sei anni lo scordasse.
D’altra parte, l’episodio dei ricci insegna, nella maniera più cruda possibile, quello che chiunque sappia cos’è la vita cerca di insegnarti: la paura uccide. Da qualsiasi angolazione si guardi la scena, i due ricci non sono morti a causa degli umani cattivi, o per l’urbanizzazione che ha devastato la natura. I due ricci sarebbero ancora vivi se non avessero avuto paura. Lo dice perfino il rospo, con delle parole così puntuali e giudiziose che non posso fare a meno di citarle nella loro interezza: «Purtroppo è sopravvenuto l’istinto, e l’istinto può essere molto forte, amici.»
Per questo penso che sia stata soprattutto la mente a spingere perché dimenticassi il ricordo dei ricci schiacciati dalla paura. Trasformandolo in una specie di trauma, ha fatto in modo che potessi vivere qualche anno con ingenuità, senza la paranoia di essere travolto da un camion a tutta velocità. Al contempo, però, questa leggerezza ha avuto un prezzo: farmi dimenticare che l’obiettivo per salvarsi non è soltanto evitare i veicoli lungo il percorso, ma anche arrivare dall’altra parte della strada. Senza perdersi nel mezzo della carreggiata, in assenza di uno scopo. Stavolta devo cercare di non dimenticarmene. Anzi, meglio: di non scordarlo.
Roba affine
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Letto, rivissuto, condiviso. Avevo solo dimenticato!
Davvero una bella riflessione. Grazie 🙂
Complimenti