Non so se l’età anagrafica conti qualcosa, ma io mi sento parte della generazione di omosessuali che sta a cavallo tra quelli della prima ondata e i gay postmoderni. Se mi volto indietro vedo finocchi senza diritti, animati dallo spirito dei Moti del 1969, quelli che c’erano quando uscì True Blue di Madonna, quelli che conoscevano il codice del fazzoletto per rimorchiare nei bagni pubblici; e se guardo avanti vedo questi adolescenti disinibiti che hanno fatto coming out a otto anni, confondono Stonewall con Stonehenge e considerano Ariana Grande già un po’ troppo anziana. Mi piace collocarmi a metà tra queste due realtà, ed è anche per questo che ho apprezzato, amato, adorato Priscilla, la regina del deserto.
Avevo già visto il film, uno dei pilastri del cinema LGBT+, qualche anno fa, ma ieri sera sono andato a teatro per il musical: un susseguirsi di inni gay che fanno da sfondo alla storia on the road di due drag queen e una trans in viaggio per l’Australia, a bordo di un torpedone rosa chiamato Priscilla.
Vedere Priscilla mi ha ricordato che cosa sia la cultura gay: ironia, ambiguità, colori, camp, musica leggera, tanto pop e politicamente scorretto. In un momento storico in cui quando ti incazzi se ti chiamano finocchio ti dicono che sei troppo politicamente corretto, è bello rammentare cosa il politicamente scorretto fosse davvero.
Ora sta a sentire, brutta manza: appiccati il fuoco alla cordicella del tampax e fatti esplodere la caverna perché è l’unica botta che avrai mai nella vita, tesoro caro!
Priscilla è questo, un miscuglio di pop e glitter, ma è anche una storia semplice che ha un potere pazzesco, quello di metterti addosso un sacco di carica e di voglia di cambiare le cose, il potere di farti sentire parte di una comunità, e non so quanti abbiano la fortuna di poter vivere una sensazione del genere, e il potere di farti tornare a casa su un tram che con un pochetto di immaginazione può facilmente diventare un furgone rosa che sfreccia nel deserto, anche se ti trovi nella zona urbana di Milano.
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